Giulia Pompili, il Giornale 16/1/2013, 16 gennaio 2013
GIUSTIZIA CHOC IN GIAPPONE: TUTTI COLPEVOLI E REI CONFESSI
A ventiquattro anni dal delitto, qualche giorno fa un ottantaduenne giapponese ha chiesto la riapertura del processo a suo carico alla Corte penale di Kobe, in Giappone, per «falsa confessione». Nel 1989 era stato accusato di aver strangolato e ucciso il gestore di un bar. Durante le indagini della polizia aveva confessato il delitto, salvo poi ritrattare. La condanna del giudice, però, è arrivata comunque, e con essa il carcere.Adesso l’avvocato dell’anziano signore chiede ai giudici di riaprire il caso, per dimostrare che la sua confessione era falsa. È lo stesso calvario che da diciotto anni vivono Keiko Aoki e il suo compagno Tatsuhiro Boku, accusati dalla polizia di aver dato fuoco alla propria casa per intascare i soldi dell’assicurazione della figlia undicenne, rimasta uccisa nel rogo.
Due mesi dopo l’incendio, le forze dell’ordine hanno ottenuto due confessioni durante un lungo interrogatorio «volontario ». Un anno fa, gli avvocati sono riusciti a far tornare alla Corte di Osaka il caso, dimostrando la falsità delle confessioni e l’evidente innocenza dei due, che nel frattempo stanno scontando il carcere a vita.
Quello delle false confessioni, in Giappone, è un problema che sta attirando l’attenzione internazionale, e un richiamo, qualche mese fa, di Amnesty International. Il 99 per cento dei processi penali, nel Sol levante, si concludono con una sentenza di condanna, e non è per una straordinaria efficienza giudiziaria.
La maggior parte delle volte, è una confessione falsa a determinare l’esito di un processo. Culturalmente, in Giappone la confessione è il primo passo per dimostrarsi pentiti davanti all’autorità.In un paese dove la moralità e il senso dello stato viene prima di tutto, chi confessa ha diritto alla rieducazione, mentre chi non confessa viene trattato con più durezza - o con la pena di morte (nel 2012 sono state giustiziate 12 persone ealmeno 113 sono nel braccio della morte).
Uno dei motivi è da ricercare nel timore reverenziale nei confronti del giudice, una figura sacra e letteraria, come quella del giudice perfetto, Õoka Tadasuke. È qui che si comprende come, nonostante le false confessioni e i conseguenti errori giudiziari, secondo i sondaggi i giudici del Sol Levante siano la casta che conserva maggior fiducia da parte dei cittadini. Una categoria di eletti inarrivabili, che non compare in pubblico e non parla ai convegni. Ultraterrena.
«Dal punto di vista procedurale, sono vari i motivi per cui un giapponese arriva a una falsa confessione», dice Andrea Ortolani, giurista alla Tokyo University. «Durante i ventitré giorni in cui un sospettato può essere fermato prima del rinvio a giudizio, subisce numerosi interrogatori da parte di polizia e pm, e può incontrare i propri legali per sole tre volte». Non sorprende che, in queste circostanze, ci siano molte false confessioni ottenute da ore di interrogatorio che non possono essere registrate, se non parzialmente. E un pubblico ministero, in Giappone, non può sbagliare a portare a processo un sospettato: la pena è infatti la carriera. «Mentre i pm fanno le indagini con la polizia, il processo penale diventa quasi uno scontato rito di convalida. Si è assistito spesso alla modifica dei verbali di interrogatorio, per esempio, e alla confessione estorta per via dell’assenza di patteggiamento nel diritto penale giapponese », spiega Ortolani. Solo nel 2009 per i reati più gravi è stata introdotta la giuria popolare nei processi, dopo la denuncia da parte della categoria degli avvocati di un corto circuito tra indagini della polizia, rinvio a giudizio del pm e processo. Ma spesso la confessione falsa viene fornita pur di avere uno sconto di pena. O la benevolenza del sacro giudice.