Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  gennaio 16 Mercoledì calendario

LA GERMANIA ARRANCA E VEDE L’INCUBO RECESSIONE


Rezession. In tedesco, la recessione suona ancora più dura. Una strozzatura gutturale perfetta per definire una crisi che ha rischiato (rischia?) di strangolare l’intera eurozona. Sarà per colpa di quell’ Uber alles scolpito nel dna nazionale, di quel complesso di superiorità mai celato, che la Germania si era convinta di godere dell’immunità congiunturale, di aver un amuleto contro le disgrazie capitate agli altri. Già nel novembre dell’anno scorso, il primo monito di Mario Draghisull’estensione del contagio a Berlino e dintorni e la successiva conferma dei nemici amatissimi della Bundesbank, avevano però rimesso le cose a posto: all’interno di Eurolandia, non c’è una sola isola felix .
Adesso, il timbro del ministero tedesco dell’Economia sostituisce alle parole l’ufficialità delle cifre. Che parlano di un’economia in debito d’ossigeno, cresciuta di uno striminzito 0,7% nel 2012 contro il robusto 3% dell’anno prima. Ma il peggio è che, nell’ultimo trimestre, alla crescita si è sostituita una contrazione dello 0,5%, un inciampo che getta ombre sinistre sul primo quarto dell’annoin corso.Ilcalo subìto tra ottobre e dicembre peserà infatti per uno 0,25% sul Pil 2013. Una brutta eredità, chiamata in gergo tecnico «effetto di trascinamento», che potrebbe portare a un secondo calo consecutivo della ricchezza nazionale tra gennaio e marzo. Insomma, a una recessione tecnica. Lo stesso governo ha provveduto a tagliare a un +0,4% le stime di crescita dell’economia per quest’anno contro il +1% previsto finora. Un po’ di prudenza non guasta.
È comunque una Germania che si scopre meno bastione contro la crisi. Proprio nell’anno delle elezioni. Frau Angela Merkel è ancora saldissima nei sondaggi, ma un altro slittamento del Pil certo non porterebbe voti alla Cancelliera. Ma non solo. Diciamolo chiaro: una Germania impoverita non conviene a nessuno. Banale ricordarlo, la locomotiva d’Europa condiziona l’intero sistema economico dell’area, e in particolare Paesi esportatori come l’Italia. Inoltre, Berlino partecipa con la più alta contribuzione finanziaria a tutte le misure di contrasto alla crisi messe in atto: le resistenze ad allargare i cordoni della borsa, già più volte espresse nei mesi scorsi non solo dalle frange meno europeiste, finirebbero dunque per aumentare. Rendendo l’euro zona fragile,meno coesa e quindi vulnerabile agli occhi dei mercati.
Ma il discorso si può al tempo stesso rovesciare: un’Europa impoverita non conviene alla Germania. I numeri del quarto trimestre 2012 parlano ancora di una buona tenuta dell’export tedesco (+4,1%). Il dato è però aggregato: non tiene cioè conto delle singole zone in cui il made in Germany ha piazzato i propri prodotti. È perciò presumibile che l’incremento sia il frutto delle vendite in Cina, soprattutto di automobili, più che di quelle nel Vecchio continente. Deve semmai preoccupare il fatto che proprio la crisi e le incerte prospettive economiche hanno provocato lo scorso anno una brusca discesa degli investimenti in macchinari (-4,4%) e anche nelle costruzioni (-1,1%).La cappa dell’austerity è dunque scesa anche sulle imprese.
I tedeschi, per ora, si possono consolare con l’inflazione, parola che evoca da quelle parti l’incubo della Repubblica di Weimar: i prezzi al consumo sono scesi nel 2012 al 2% (2,3% l’anno prima), un valore perfettamente in linea con i target della Bce. Intanto, secondo il quotidiano economico tedesco Handelsblatt, la Bundesbank avrebbe deciso di riportare nei forzieri nazionali una parte consistente delle 3396 tonnellate di riserve auree finora custodite tra New York (45%), Parigi (11%) e Londra (13%) sin dai tempi della guerra fredda per motivi di sicurezza.