Riccardo Staglianò, il Venerdì 11/1/2013, 11 gennaio 2013
GUARDARE AL MALE PRIMA DELLA SHOAH. PER EVITARE ALTRI OLOCAUSTI
[Marco Paolini]
Il linguaggio della burocrazia, tenendo a debita distanza ogni cosa, consente di mettere a fuoco anche l’orrore. Dunque, al primo settembre 1941 sono stati «disinfettati 70.273 pazienti. Calcolando un costo giornaliero di 3,50 Reichsmark, abbiamo fatto risparmiare: 4.781.339,72 kg di pane; 19.754.325,27 kg di patate. Poi marmellata, margarina, caffè d’orzo, zucchero (...). Continuando così in dieci anni l’1 per cento della popolazione non graverebbe più sulla spesa sanitaria». Disinfettati è l’anodino sostituto di tatti fuori, eliminati, sradicati. Ausmerzen, appunto, che ha un’etimologia contadina, la soppressione degli animali più deboli «prima di marzo», prima della transumanza, ché non la rallentino con il loro passo stentato. Ausmerzen come il perturbante spettacolo di Marco Paolini, un anno fa in tv e da pochi giorni in libreria (Einaudi, dvd da 160 minuti e taccuino di lavoro di 160 pagine), su un sistematico esperimento di sterminio, di malati fisici e psichiatrici, che fece 300 mila morti nella Germania nazista dal ’39 al ’42. Una specie di prova generale per i lager. Il lato b di Auschwitz, Dachau e Treblinka. La traccia infinitamente meno ascoltata della stessa partitura per un massacro. Con l’attenuante storica, se così si può dire, di aver provocato meno morti. E l’aggravante di aver preso come bersaglio vittime se possibile ancora più indifese.
L’aberrazione più specifica dell’Aktion T4, da Tiergartenstrasse 4, l’indirizzo berlinese dell’ente pubblico per la salute e l’assistenza sociale cui fu dato l’incarico di portare avanti prima la sterilizzazione e poi l’eutanasia dei portatori di tare ereditarie, stava nella natura dei carnefici. «A me le svastiche non attraggono» dice un influenzato Paolini al telefono dalla Riviera del Brenta, «quando le vedo in tv cambio canale. Nel senso che mi sembra di aver già sentito tutto quel che le riguarda. Qui invece vittime e carnefici non sono separati da un filo spinato. Anzi, appartengono alla stessa istituzione, un ospedale. Sono infermieri e medici da una parte, pazienti dall’altra. E i loro camici bianchi, normalmente non associati a gente malvagia, sono addirittura più inquietanti delle camice brune. Nell’utopia di "curare la società" ripulendola dai loro elementi difettosi si annidano i mostri dell’eugenetica».
La potenza di questa storia sta nella sua apparente normalità. E nei continui ritorni al presente. Paolini sul palco fissa nella Belle Époque la data di nascita dei manicomi. Piccole città con viali alberati. Posti quasi belli, in sintonia con l’epoca. Poi c’è la Grande Crisi, che ne innesca tante piccole, ma non meno devastanti. L’idea che qualcuno mangi senza lavorare, anche se è malato e quindi non ha colpa, diventa sempre più difficile da sopportare. Un lusso da tagliare in una selvaggia spending review ante litteram. Nel monologo si leggono brani da manuali ministeriali che calcolavano che una malata, una lungodegente, costava 5 milioni di marchi «pagati da gente sana e di valore». Pensate come sarebbe meglio togliere questi soldi ai matti e darli a giovani famiglie ariane! «Questa strada è scivolosissima, ma non dobbiamo illuderci di essercela lasciata alle spalle. Nei giorni scorsi ero a Pergine, in Trentino e nella vetrina di una sede della Lega Nord, sopra a un presepe, c’era un manifesto a colori circensi che diceva "Un extracomunitario sposato con quattro figli può incassare dalla provincia autonoma di Trento fino a 2000 euro al mese. Tutto questo senza lavorare. Grazie Dellai (il presidente della provincia)! Ecco, manifesti del genere andrebbero fatti togliere, qualcuno dovrebbe andare lì e spiegargli che è razzismo. Magari non sanno neanche che nello stesso modo si esprimeva la propaganda nazista. Lo scopo di uno spettacolo come il mio è proprio dare questi strumenti. Per evitare che nella nuova guerra tra poveri qualcuno faccia leva sul fatto che tu stai male per mostrarti un altro che sta un po’ meno male per farne un bersaglio, uno juden». C’è sempre una gran voglia, quando le cose vanno male, di trovare un capro espiatorio su cui appiccicare una stella gialla.
Il Reich mise in piedi una macchina molto sofisticata. Centottantuno corti genetiche per vagliare le patologie e capire come «pulire il sangue» della nazione. Frick, il ministro degli interni di Hitler identificò 500 mila cittadini geneticamente «non accettabili». Non c’erano solo i tedeschi. Hitler aveva commissionato dei poster in cui, quanto a sterilizzazione di malati, citava l’esempio di Svezia, Giappone, Svizzera. E gli Stati Uniti che, negli anni ’20, avevano impedito per sempre a 250 mila donne di riprodursi. Chiudere le tube però è il primo passo. Paolini racconta del paziente zero, il figlio neonato di un contadino di Pomssen, a sudest di Lipsia. Nasce con una gamba e un braccio solo. Non ci vede. Il brav’uomo del padre non sa a che santo votarsi e scrive al Führer. Che autorizza i medici a togliere la vita al piccolo. Poi ai medici di famiglia e alle ostetriche arriva la circolare di Leonardo Conti, capo della commissione per la salute del popolo: ogni nascita di bambino malformato per cause ereditarie deve essere segnalata. Erode nell’èra della riproducibilità tecnica. Ma dove eseguire il «trattamento» senza dare troppo nell’occhio? I manicomi sono i candidati ideali. Non stanno quasi mai in centro e la gente è abituata a starne alla larga. Così sei diventeranno altrettanti centri di igiene razziale. Il tutto senza alcuna legge che formalmente istituisca questo abominio. Basterà una lettera del dittatore che autorizza a sommistrare la «morte per grazia agli incurabili». Un pezzo di carta che vale centinaia di migliaia di vite. «Il pizzino di Hitler» dice Paolini.
Dodici psichiatri dovranno valutare migliaia di malati. Gli ammessi vincono un viaggio senza ritorno. Li portano agli ospedali con i pullman. E il consenso dei genitori cui spiegano che è per il loro bene. L’attore legge una delle lettere con cui l’organizzazione comunica alla madre la morte per «arresto cardiaco» della figlia. La donna è disperata, si rimprovera di averla lasciata andare, ma si fidava dello Stalo. Vorrebbe vederla per l’ultima volta. Ma le «segretarie di conforto», assunte con il compito di personalizzare le lettere di decesso, la avvertono che purtroppo si è già proceduto alla cremazione. Alles ist in ordnung. È qui che vengono inaugurate le docce a gas e i forni crematori. La filiera dello sterminio fa le sue prove tecniche. A Hademar i cittadini vedono uscire del fumo incongruo dai comignoli del manicomio, ma non si fanno troppe domande. Ieri come oggi. «Noi, come bravi cittadini di Hadamar, vediamo fumo ogni tanto, ma ci stiamo abituando. Scivoli nell’indifferenza, ti rassegni: "Cosa posso fare?" Eppure l’Italia che vedo io nelle mie tournée è molto meglio di come ce la raccontano. Tipi come Silvia Conte, sindaco di Quarto D’Altino, che per opporsi alla chiusura di una fabbrica di cancelli comprata da una multinazionale svedese che voleva delocalizzare in Cina, ha comprato un’azione ed è andata a dirlo a Stoccolma nell’assemblea degli azionisti. Gente che invece di chiacchierare fa e interpreta la politica per quello che dovrebbe essere: un mestiere nobile. Io faccio il tifo per loro, per il Paese che non vuole che alla chiusura delle fabbriche si risponda solo con l’apertura di solarium».
Non sopporta gli alibi, Paolini. Anche nel contesto più nero, sembra dire, c’è sempre un margine di scelta. Nel delirio efficientista degli ideologhi dell’AT4 risuona il tema dei tagli, del sacrificare i meno indispensabili, i meno produttivi. «È una logica pericolosa, però alla fine è l’operatore ultimo anello della catena dell’assistenza sociale che decide se trattare bene o male il paziente». La sua pedagogia consiste nel tenere sempre gli occhi bene aperti, chiedendo agli spettatori di fare lo sforzo di non distogliere lo sguardo: «Noi siamo famosi per la commedia all’italiana, che è forse un modo di esorcizzare tante sfighe che abbiamo avuto dal dopoguerra in poi, dalle tragedie naturali al terrorismo. Però i traumi o si rimuovono o ce ne si fa una ragione, raccontandoli. Forse dovremmo sviluppare il genere della tragedia all’italiana. Solo così si cresce».
È quello che fa lui, dal Vajont a Ustica, passando per il cinema in cui gli capita di mettersi nei panni degli immigrati, i nuovi anelli deboli della catena, bersagli mobili di un Paese che non spara a casaccio. Verso la fine di Ausmerzen l’autore raccoglie la testimonianza di Alice Ricciardi Von Platen, la psichiatra che aveva indagato sulla vicenda per contro del tribunale di Norimberga. Dice: «Come si può raccontare una cosa del genere? Con più dettagli possibili. Il male arriva come un piccolo nodo: quando te ne accorgi sei già malato», meglio quindi fare la lista più esaustiva dei sintomi, per una diagnosi precoce se la malattia dovesse ripresentarsi. Qual è la cura contro l’endemica inconsapevolezza in cui viviamo? «Non ci sono vaccini, soltanto profilassi. Tipo far capire a chi ha messo il manifesto sugli extracomunitari "a sbafo" che il manifesto è razzista. Ma la profilassi va fatta soprattutto su di noi. Ogni adulto curi se stesso per evitare gli incubi tipo AT4 che possono derivare dall’illusione di curare la società nel suo complesso».