Paola Jacobbi, Vanity Fair 16/1/2013, 16 gennaio 2013
SE MI CHIEDI, RAGAZZA, CHI ERA LA MELATO
Carissima, in questi giorni mi hai detto che Mariangela Melato non l’avevi mai sentita nominare. Ti sei stupita delle reazioni commosse, dei servizi al tigì, delle pagine di giornale a lei dedicate. «Possibile fosse così famosa?». Hai confessato che pensavi che Travolti da un insolito destino fosse solo un brutto film con Madonna, non il remake di uno dei maggiori successi del cinema italiano.
Nulla di grave, giovane amica mia: è una questione generazionale, non una colpa.
Potrei spiegarti che la Melato era una grandissima attrice semplicemente ricordando che, a teatro, è stata strepitosa in Medea e in Madre coraggio, lei che di figli non ne ha mai avuti. Potrei indicarti cento frammenti di film su YouTube che dimostrano che riusciva in tutto, che era un po’ la nostra Meryl Streep: un fenomeno di grazia e naturalezza, le virtù dei numeri uno.
Io ho cominciato a sentir parlare di Mariangela quando ero ragazzina perché un’amica di mia madre aveva frequentato con lei i corsi di recitazione all’Accademia Filodrammatici di Milano. Poi quest’amica non ha più fatto l’attrice ma seguiva da spettatrice tutto quello che faceva Mariangela. Le ascoltavo chiacchierare, lei e mia madre, tutto un Mariangela qui, Mariangela là.
La Mariangela è brava, la Mariangela sta diventando famosa, la Mariangela vince i premi, la Mariangela la vogliono a Hollywood.
La sua relazione con Renzo Arbore, poi, sovvertiva ogni regola: non un matrimonio, non la solita solfa dell’attrice con un regista ma l’unione di due che, ciascuno nella propria professione, avevano raggiunto vertici di successo. Nel momento in cui le ragazze degli anni Settanta cercavano un modello, Mariangela lo fornì. Non schiave d’amore ma indipendenti eppure con l’amore accanto.
Scoprire in questi giorni che con Arbore era tornata nel 2007 mi ha commosso e fatto pensare a quella canzone che dice una cosa che capita di rado ma che quando capita è miracolosa: «Certi amori non finiscono /fanno giri immensi e poi ritornano».
Ricordo bene la prima volta che la vidi in un film. Era Caro Michele di Mario Monicelli, tratto da un romanzo di Natalia Ginzburg. La trilogia della Wertmüller (Mimì, Travolti e Film d’amore e d’anarchia) la recuperai dopo perché, quando uscirono, quei film erano vietati e io ancora troppo piccola. Comunque, quando la vidi nella parte di Adriana, la madre del Michele del titolo, con i capelli corti e un calore familiare che sembrava tutto fuorché una recita, mi parve di vedere sullo schermo una parente, una di casa. Un po’ perché ne conoscevo bene la storia (le origini senza blasone, il lavoro come vetrinista della Rinascente) per via dell’amica di mamma, e anche perché dentro quella voce così unica, quel tono sbrigativo e privo di birignao, ci sentivo sempre la traccia di una Milano che stava scomparendo, quella in cui il panettiere si chiamava «prestinaio» e il vigile urbano «ghisa».
Negli anni in cui il divismo si spegneva, Mariangela incarnava un nuovo tipo d’attrice, rigorosa e semplice, che dal pubblico otteneva empatia e rispetto. Era così popolare che, a un certo punto, le chiesero di condurre Domenica In: rifiutò ma non per snobismo. Aveva di meglio da fare. E quel meglio era il teatro a cui si dedicò con l’ossessione degli artisti veri, allontanandosi dal cinema e dalla Tv. Ecco perché, negli ultimi anni, tanti giovani come te l’hanno persa di vista. Il teatro oggi è sempre più negletto e museale, e una delle ragioni è che non ci sono più abbastanza talenti come il suo da applaudire.