Laura Anello, La Stampa 16/1/2013, 16 gennaio 2013
LA BREVE VITA DEL MUSEO DELL’EROE DEI DUE MONDI
[Palermo, inaugurato nel 2010 dopo anni di lavori: da ieri è chiuso per mancanza di fondi] –
Fu inaugurato nel tripudio dei 150 anni dell’Unità d’Italia, tra ghirlande e bandiere tricolore, con i responsabili costretti a chiamare i carabinieri per arginare il tripudio di duemila visitatori che avevano dato l’assalto alle sale, ansiosi di vedere per primi la camicia rossa e le stampelle di Garibaldi ferito, le fototessera dei Mille, le pantofole, il sigaro e perfino i peli della barba dell’Eroe dei due mondi. Adesso il Museo del Risorgimento di Palermo, aperto il 30 maggio del 2010, tappa cruciale della visita del presidente Napolitano nel settembre del 2011, chiude i battenti per mancanza di soldi. Sfioriti precocemente i fremiti unitari, tornata fuori moda la parola patria, qui sembra che tutto sia stato uno show.
I quattro dipendenti licenziati, i cimeli e i documenti precipitati nel buio, la biblioteca con 110 mila testi rari sbarrata, il centralino incantato su una voce metallica che dice: «Gli interni sono al momento occupati». Il museo che visse due anni. O poco più. In barba ai 300 mila euro e quattro anni spesi per farlo rinascere dalle ceneri della vecchia istituzione che era nell’oblio da mezzo secolo: aperta nel 1918, razionalizzata nel 1932, re-inaugurata nel 1961 e poi lasciata alla polvere e ai tarli.
«Temporary museum», verrebbe da chiamarlo, parafrasando i temporary shop, negozi a tempo, che sono l’ultimo fenomeno della società dei consumi. Ma, a varcare la soglia nell’ultimo giorno di apertura, nessuno ha voglia di scherzare. «Una tragedia», taglia corto la custode, Vincenza Palazzolo. Malinconia, sbalordimento, amarezza per l’epilogo di una storia che racconta l’abbandono dei beni culturali nella Sicilia dove trovi un reperto per ogni buco in terra che fai. Ma che simboleggia anche lo spreco di denari, di energie e di parole. «Questo è un grande giorno», dicevano all’unisono i politici e gli amministratori convenuti per tagliare il nastro a favore di fotografi e cineoperatori. Adesso c’è un silenzio assordante - spezzato soltanto dall’appello di un gruppo di intellettuali - intorno alla chiusura del museo che è parte di un’istituzione antichissima: la Società di Storia patria, fondata nel 1863 dai più celebri studiosi del tempo e collocata vent’anni dopo nella porzione del convento di San Domenico sottratta agli ecclesiastici con la requisizione dei beni, proprio accanto alla basilica che è il Pantheon dei siciliani illustri. Divertente convivenza, in tutti questi anni, tra memorabilia e tombe dei rivoluzionari «mangiapreti», da una parte, e i pochi frati rimasti a passeggiare nel chiostro, dall’altra.
A chiudere non è soltanto il museo che raccoglie i ricordi di tutte le stagioni del Risorgimento siciliano - dagli albori del 1836-1837 ai moti del 1848-1849 fino all’Unità - ma l’intera Società, orfana di quel finanziamento regionale che le consentiva di andare avanti, unito al ricavato delle quote di 100 euro all’anno pagate dai 240 soci e agli spiccioli (7.600 euro) del ministero dei Beni culturali. «Da due anni – spiega il direttore del museo, Pasquale Hamel – la Società non riceve un soldo di contributo della Regione. Nel bilancio del 2012, i 124 mila euro stanziati a fatica tra sagre del carciofo e della salsiccia non sono mai stati erogati, quest’anno non è arrivato niente». Il presidente dell’istituzione Giovanni Puglisi, che è anche a capo della Fondazione Banco di Sicilia, è intervenuto più volte con iniezioni da 50 mila euro, ma quest’anno i cordoni della borsa si sono chiusi anche lì. Impossibile allora pagare i quattro dipendenti – la custode, i due bibliotecari, l’amministrativo – e mantenere i locali, dalla luce alla pulizia, con i soli soldi dei biglietti del museo: 4 euro, ridotti a 2 per le scolaresche.
«E’ un lutto, è come perdere un parente. Mi ricordo l’emozione del restauro, le capriate restaurate a una a una, il parquet steso a terra», dice il responsabile amministrativo della Società, Giacomo Volo, scorrendo con lo sguardo le vetrine dove troneggia la statua di Garibaldi a cavallo scolpita da Mario Rutelli. Pareti rosse e grigie, «a raccontare il rosso delle camicie garibaldine e il grigio delle spade protagoniste della rivoluzione», come spiegavano entusiasti i progettisti. Ma adesso, a dispetto dei vessilli vermigli esposti nelle teche, qui sventola la bandiera bianca della resa.