Mattia Feltri, La Stampa 16/1/2013, 16 gennaio 2013
DA SCILIPOTI A BARBARESCHI GLI “EROI” CHE NON RIVEDREMO
[Senza chance di rielezione dopo cambi di casacca e liti furibonde] –
Luca Barbareschi, Franco Barbato, Daniela Melchiorre, Antonio Razzi, Domenico Scilipoti, Italo Tanoni: in ordine alfabetico, perché stilare l’ordine di merito è da ingrati. Senza di loro, la legislatura calante non sarebbe stata la stessa e la prossima rischia seriamente di non trovare sostituiti di livello. Tre del gruppo (Barbato, Razzi, Scilipoti) li dobbiamo al fiuto - così devastante da poliziotto e poi da pm, così costipato da leader politico - di Antonio Di Pietro. Sebbene lui si difenda: che dubbi si potevano nutrire a proposito del presidente della Federazione emigrati abruzzesi in Svizzera (Razzi), poi sospettato dagli affiliati, forse malignamente, di essersi ingoiato i fondi per i terremotati? E quali a proposito di un ginecologo, ostetrico e agopuntore, professore convitato all’Università del Paranà (Scilipoti)? Furono invece loro due a mollare l’Italia dei Valori per fondare i Responsabili e salvare Silvio Berlusconi dal putsch di Gianfranco Fini, dicembre 2010. E fu proprio Barbato a vendicare l’onore del partito filmando di nascosto Razzi mentre illustrava le ragioni non strettamente ideali del cambio di casacca: «Io avevo già deciso da un mese prima (di votare la fiducia, ndr). Mica avevo deciso, figurati, tre giorni prima». E l’altro: «Ma come? Tre giorni prima hai detto male di Berlusconi». E Razzi: «L’ho detto apposta. Dieci giorni mi mancavano. E per dieci giorni mi inc... Perché se si votava dal 28 marzo come era in programma io per dieci giorni non pigliavo la pensione».
Non è bastata nemmeno la generosa inclinazione all’horror di Vittorio Sgarbi, che presentò alla Camera il libro autobiografico di Razzi, a restituire un calibro al deputato. A quella presentazione arrivò un tizio uguale sputato a Scilipoti, il quale poi sostenne, con una certa immaginazione, di essere dotato di molti sosia, essendo altrettanti e di più gli impegni. Purtroppo non gli era consentito di impiegare le controfigure in aula, dove rientrava trotterelloso, lui così alla Danny De Vito, per il perenne ritardo al voto; e se prendeva parola, a ogni pausa gli ex amici dell’Idv intonavano in coro: «Munnezzaaaa». E lui, che è un fenomeno, faceva le pausa apposta sinché al tremillesimo «munnezzaaaa» i dipietristi se ne annoiarono.
Era questa la Camera a cui andiamo a dire addio. La Camera dello stesso Barbato, che per la missione di spiare tutti con la telecamerina, e dare il filmato alle tv, finì con l’essere detestato anche dai suoi: «Non so se è peggio lui o Scilipoti», disse Gabriele Cimadoro, cognato di Tonino. Ci resteranno, di questo ex socialista della Prima repubblica, le soluzioni al problema-Fiorito («Quelli come lui in Cina li uccidono o li torturano»), i capelli alla chitarrista di piano bar, le giacche a scacchi arrotolate sulle braccia, una certa interpretazione del mandato parlamentare culminata con arcane dimissioni, e con il ritorno in aula pochi mesi dopo a formulare il giudizio sul governo: «Avete rotto i c...». L’ultimo giorno espresse un saluto all’altezza: «Cari deputati, andate tutti a quel paese». Adesso ha da occuparsi di un’inchiesta a suo carico per tentato millantato credito: i superpoteri di parlamentare in cambio di ventimila euro.
Nel misto, attiguo ai Responsabili dopo aver cominciato la legislatura nel Pdl e averla proseguita nel Fli - finì anche Barbareschi, ritornato in pagina per i modi istintivi adottati contro quei gran rompitasche delle Jene. Ha litigato più o meno con tutti. «Scusate, se è in politica è colpa mia», disse Ignazio La Russa, in genere refrattario all’autocritica. Un giorno l’onorevole attore arrivò al pranzo del mercoledì dei finiani, nello studio di Italo Bocchino, e metà di loro si alzò e se ne andò. Barbareschi valutò sé e i camerati: «Mi hanno emarginato. E quando non ho più contribuito alla strategia s’è visto il risultato: Fli era al 9 per cento, ora è all’uno». Impegnato nella strategia, firmò sbadatamente una proposta di legge che aumentava gli emolumenti ai partiti («un banale errore») e si astenne sul caso Ruby («No no, io ho votato con Fli, ci sarà stato un contatto»). Vicino a lui sedeva l’ex magistrato Daniela Melchiorre, a nostro giudizio la campionessa assoluta. Bisogna apprezzare la biografia politica (tutta insieme col fido Tanoni), che attraversa questa e la scorsa legislatura: presidente della Margherita di Milano, passa con Lamberto Dini, fonda i Liberal Democratici, diventa sottosegretario di Clemente Mastella nel governo Prodi, si candida nel 2008 col Pdl, fonda i Liberal Democratici Riformisti, esce dal centrodestra e passa al misto, dal misto passa all’opposizione, presenta alle Europee del 2009 i Liberal Democratici Riformisti insieme col Movimento Associativo Italiani all’Estero e con l’appoggio del Movimento Europeo Diversabili Associati e del Fronte Verde Ecologisti Indipendenti, prende lo 0,23 per cento (è la lista meno votata), alle Regionali del 2010 è con l’Udc, partecipa alla fondazione del Polo della Nazione con Fli e Udc, esce dal Polo della Nazione, torna nel centrodestra, diventa sottosegretario allo Sviluppo Economico, si dimette dall’incarico, torna fra i centristi che ora non la candidano più, né lei né Tanoni. Però, caruccia e dolce, cancellò da Facebook le centinaia di vili insulti ricevuti in una delle occasioni sopra elencate; ebbe cura di lasciare l’annuncio dell’uscita della «splendida compilation» di canzoni dedicate alla mamma, da Anna Oxa a Beniamino Gigli. Ci piace ricordarla così.