Gianni Barbacetto, il Fatto Quotidiano 15/1/2013, 15 gennaio 2013
LA CONFESSIONE DI GERONZI NON BASTA PER GARANTIRGLI L’ASSOLUZIONE
Milano
Come il Topolino apprendista stregone di Fantasia, Massimo Mucchetti ha plasmato una creatura che si è poi animata di vita propria. Confiteor (Feltrinelli) è un poderoso libro-intervista a Cesare Geronzi, banchiere. Ma, arrivato sugli scaffali, è diventato il pretesto e l’occasione per avviare il processo di beatificazione del ragioniere di Marino: Geronzi santo subito. Fino a qualche settimana fa era un tranquillo pensionato dalla storia pesante, ma finita. Un dinosauro da contemplare al museo o dimenticare per sempre. Il libro di Mucchetti – ultima fatica giornalistica del vicedirettore del Corriere, chiusa prima di candidarsi alle elezioni per il Pd – ha scatenato una poderosa campagna di rilancio. Recensioni, segnalazioni, incontri, programmi tv: Geronzi è tornato un protagonista della scena mediatica. Nella presentazione di dicembre alla Fondazione Corriere della Sera di Milano, c’è stato l’inedito abbraccio di due anziani banchieri (“Due arzilli vecchietti”, secondo Diego Della Valle, o “power broker”, secondo Carlo De Benedetti): Giovanni Bazoli e Cesare Geronzi, dopo anni di silenzio, hanno rivendicato in pubblico un rapporto forte e qualche impresa comune. “Il nostro è stato un sodalizio che ha stupito tutti, ma che riteniamo sia stato utile per la stabilizzazione del sistema”. L’abbraccio liscia le differenze e spegne le illusioni che a Milano si facesse finanza dentro il mercato, mentre a Roma le relazioni e la politica contassero più che i bilanci. Entrambi “banchieri di sistema” in un “capitalismo di relazione”, dunque. E il “caro Cesare” e il “caro Nanni” ora lo rivendicano con orgoglio.
Certo che Geronzi resta ineguagliabile: è stato per decenni, nel ventre molle della Roma democristiana e papalina, il “banchiere di sistema” per eccellenza . Con gli istituti di credito usati, più che per fare finanza, per mettere insieme amici fidati e far loro realizzare operazioni sicure. E per finanziare i partiti e i loro giornali, generosamente e in modo ecumenico. Geronzi ha dato soldi all’Unità e al manifesto. Ha aiutato Massimo D’Alema a sistemare i conti del partito. Ha salvato Silvio Berlusconi dal fallimento. Ed è riuscito a planare dalla Prima alla Seconda Repubblica, volando dalla Roma andreottiana alla Milano del dopo Cuccia, su su, fino al vertice di Mediobanca e poi di Generali. Nell’aprile 2011, la caduta: Alberto Nagel, di Mediobanca, riesce a farlo fuori. Lo riduce a un pensionato di superlusso, con buonuscita da 16,65 milioni e carica di presidente della Fondazione Generali. Ora Confiteor è l’occasione per la rivincita. Per riscrivere la sua storia. Cercando di far dimenticare i tanti guai giudiziari (da Federconsorzi a Italcase-Bagaglino) e le condanne secche ricevute (in primo grado) per i due crac più mirabolanti della storia d’Italia.
La prima condanna (a 4 anni di carcere per bancarotta) arriva nel luglio 2011 per il fallimento da 1.125 milioni di euro della Cirio. Il gruppo agroalimentare di Sergio Cragnotti è, alla fine degli anni Novanta, fortemente indebitato con la Banca di Roma di Geronzi. Cesare trova la soluzione, tra amici: fa comprare alla Parmalat di Calisto Tanzi l’asset più importante del gruppo, le centrali del latte di Roma e altre. Tanzi si porta così a casa un bel pacco dono: il latte di Cragnotti più 278 miliardi di debiti, confezionati insieme dentro la società Eurolat. Per questo bel regalo, paga. Ma i suoi soldi non arrivano neppure a Cirio, bensì transitano per le società alte lussemburghesi del gruppo, per finire a Banca di Roma ed estinguere il debito. Il banchiere si difende sostenendo di non aver avuto alcun ruolo nella vicenda Eurolat. Ma “risulta smentita”, dice chiaro la sentenza, “l’affermazione difensiva del Geronzi che nega di essere mai intervenuto in alcuna trattativa concernente Eurolat o comunque nei rapporti tra il gruppo Cirio e il gruppo Parmalat, non solo per il prezzo, ma anche per il negoziato e addirittura di aver mai partecipato a una riunione”. L’operazione Eurolat, scrivono i giudici, “era destinata a ridurre l’esposizione del sistema bancario ed essenzialmente della Banca di Roma, la banca di riferimento del gruppo”.
La seconda condanna (5 anni di reclusione per bancarotta fraudolenta e usura aggravata) è per il caso Ciappazzi, un ramo del crac Parmalat, il più grande dissesto finanziario italiano (14 miliardi di euro). Anche in questa vicenda Geronzi interviene per aiutare un amico: Giuseppe Ciarrapico, questa volta, che ha bisogno di fare cassa. Ha un asset da vendere, la Ciappazzi, società che produce acque minerali. Anche stavolta il buon samaritano è Calisto Tanzi, costretto da Geronzi a comprare la Ciappazzi a prezzo da amatore e a pagare tassi da usura alla banca di Geronzi, che finanzia l’operazione. Com’è finita, lo sappiamo: Calisto in dissesto, Cesare ai vertici di Mediobanca e poi di Generali.
Il nuovo Geronzi che esce dal silenzio, chiama Mucchetti e prende la parola vuole dissolvere in Confiteor la sua immagine di grande elemosiniere romano della politica. Ma rivendica il suo ruolo di grande manovratore nella storia politica-finanziaria-editoriale italiana degli ultimi decenni. “Io c’ero”, ammette con orgoglio, in tutte le grandi operazioni. In tutte, tranne quelle che gli sono costate condanne? Forse, dopo tanto silenzio, la vanità lo ha perso.