Giampiero Mughini, Libero 15/1/2013, 15 gennaio 2013
IL SILENZIO SANGUINOSO DEL BR GALLINARI
[Morto uno degli uomini simbolo del terrorismo rosso. Aveva scelto di non parlare, tanto che per anni fu considerato il killer di Aldo Moro, a cui fece da carceriere durante il sequestro] –
Morto ieri a 62 anni di un cedimento del cuore da lungo tempo leso, l’ex brigatista rosso Prospero Gallinari è stato un personaggio a suo modo esemplare e dei più tragici di tutti gli anni di piombo. Nato e allevato a Reggio Emilia, nel cuore nella regione madre dell’italocomunismo, era stato un comunista duro e tutto d’un pezzo fin da giovane. Di quelli che andavano ad ascoltare i racconti degli ex partigiani, e di certo se ne lamentavano con loro che gli esiti politici del 25 aprile 1945 non fossero stati quelli dei «domani che cantano » alla maniera dell’Urss bolscevica e dunque della felicità suprema su questa terra; se ne lamentavano che i comunisti del 1945 non avessero usato le maniere forti a impadronirsi di tutto il potere. Durante quegli incontri e quelle conversazioni i vecchi diedero ai giovani le pistole da loro usate durante la guerra civile, e magari erano pistole sottratte a ufficiali tedeschi uccisi, raccomandando loro di farne buon uso nell’Italia dei Settanta.
Uno che a Reggio Emilia era amico e compagno di Gallinari, Alberto Franceschini, uno dei due cofondatori delle Br, lo racconta in un suo libro autobiografico. Che ebbe da un partigiano una di quelle pistole, che se la portava appresso quando ancora non era entrato in clandestinità, e che quando arrivava ospite in un salotto milanese radical-chic, la pistola se la toglieva e la poggiava su un tavolino per stare seduto più comodo. Tutt’attorno, racconta Franceschini, lo sguardo ammirato di signori e signore. Quelli che ai primi debutti delle Br, chiamavano i brigatisti «compagni che sbagliano », compagni che sbagliavano non perché usavano le pistole ma perché ancora non era venuto il momento di usare le maniere forti.
A differenza di quei radicalchic milanesi e per tutta la vita Gallinari è stato uno che alle parole e alle idee ha fatto seguire le azioni. Quel che lui diceva e annunciava, poi lo faceva davvero. In nome della causa. In nome dei domani che cantano. Sequestrare, sparare, uccidere. Lui e altri della sua generazione lo avevano letto nei libri di Lenin pubblicati in Italia dagli Editori Riuniti. Che in una società divisa in classi, la cosa più umana da fare era uccidere il nemico di classe. Ad esempio Aldo Moro.
Per tutto il mese e passa che il presidente della Dc era stato rinchiuso in un antro di via Montalcini grande quando un letto su cui dormire - uno spazio ben più piccolo di quello delle celle nelle carceri italiane odierne che pure fanno inorridire il mondo civile - Gallinari era rimasto fuori dalla porta a fare da guardiano armato. E mentre a preparare la cena per il prigioniero era la brigatista Anna Laura Braghetti, che ho incontrato qualche mese fa a un mercatino del Testaccio dove lei vendeva del pane e dove le era accanto la sua amica Francesca Mambro, che è anche mia amica.
Loro due s’erano conosciute nella palestra del carcere dov’erano detenute, l’una da «terrorista rossa», l’altra da «terrorista nera». Avvieranno da quel momento una corrispondenza che è poi divenuta un libro dei più belli nel raccontare persone e itinerari degli anni di piombo e del come uscirne.
Gallinari no, non era e non sarebbe mai stato uomo da mercatini al Testaccio. Da militante e da assassino e poi da uomo messo in libertà era tutto d’un pezzo. Per pochi altri come per lui, e pur adesso che era completamente cambiato rispetto al personaggio del 1970 che scelse tra i primissimi la strada della lotta armata, vale «la regola del silenzio» evocata in un recente film americano di e con Robert Redford. La regola che per quanto tu sia cambiato rispetto agli anni dell’orrore, non una parola uscirà dalla tua bocca a dire il chi e il come delle azioni che diedero la morte. Di più. Arrestato in una via del centro di Roma e colpito gravemente alla testa da una pallottola il 24 settembre 1979, e dunque 18 mesi dopo l’assassinio di Moro, per lungo tempo il nome di Gallinari venne indicato come quello che nel garage di via Montalcini aveva tirato la raffica di mitraglia contro Moro e dopo che i brigatisti lo avevano portato giù dentro una cesta promettendogli che stavano per liberarlo. Dal 1979 al 1993, un tempo in cui a solo sentire il nome di Gallinari avevo un moto di raccapriccio per quello che aveva fatto, lui si è addossato questa nomea senza batter ciglio. E invece non era stato lui l’assassino a freddo del presidente della Dc. Lo rivelò il capo della Br, Mario Moretti, in un libro-intervista del 1993. Era stato lui, e nel 1993 Moretti riconosceva che quel ricordo non gli avrebbe dato pace per tutto il resto della sua vita.
Nel covo di via Montalcini erano in quattro. Oltre Gallinari e la Braghetti c’era Moretti, quello che preparava e faceva i lunghi interrogatori in cui cercava di cavare da Moro che razza di monnezza fosse stata la Dc, e viene da sorridere al pensiero di un ex studente di un istituto tecnico di provincia (Moretti) che affronta in un duello intellettuale Moro. Il quarto di via Montalcini era uno di cui non si seppe nulla per molti anni, e finché la polizia non lo individuò e Adriana Faranda accettò di farne il nome. Il famoso «quarto uomo» di via Montalcini, l’ex falegname romano e ex militante di Potere operaio Germano Maccari, quello di cui tanti avevano creduto che potesse essere stato un agente della Cia o del Mossad o non so, e comunque la prova provata che il ratto e l’assassinio di Moro erano eterodiretti. (Un pensiero che sotto sotto trapela anche dal bellissimo e recente libro di Miguel Gotor dedicato agli ultimi mesi della vita di Moro).
Uno come Gallinari eterodiretto? Difficilissimo da credere di uno talmente tutto di un pezzo. Uno che non s’è mai dissociato né ha rinnegato il tempo della violenza. Nel 1988 firmò un documento assieme ad altri ex brigatisti in cui disse che la «guerra era finita ». Detto così, non era vero niente. Non c’era mai stata una guerra. C’era che lo Stato democratico aveva smantellato le gang di terroristi politici che avevano chiazzato i Settanta del sangue dei «nemici di classe».