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 2013  gennaio 16 Mercoledì calendario

2010, L’ANNO AVVELENATO

[La resa dei conti con Fini è il capolinea politico del governo. Il Cav. tira avanti tra inchieste, feste e cricche] –
Lungi dal migliorare, i rapporti tra Berlusconi e Fini s’inaspriscono ogni giorno di più. Il 4 gennaio 2010 il Giornale di Vittorio Feltri attacca aspramente il presidente della Camera, paragonandolo a Di Pietro. Fini è accusato di far confluire il patrimonio immobiliare di An in una fondazione gestita da suoi fedelissimi, secondo un metodo già utilizzato dal leader dell’Italia dei valori. A difesa del presidente della Camera si schierano il direttore del magazine on line di FareFuturo, Filippo Rossi, il Secolo d’Italia – che invita a “fermare gli sfascisti” alla Feltri – e, soprattutto, il deputato Fabio Granata, che minaccia: “Se si continua così si rischia la scissione”. Qualche giorno dopo è lo stesso Fini ad alimentare le polemiche, sostenendo – in contrasto con l’opinione più volte espressa dal Cavaliere – che la legittimazione a governare non nasce solo dalle urne. All’interno del Pdl la tensione si fa dunque altissima. Così, quando riappare in pubblico dopo la convalescenza per le ferite causate dall’aggressione di Tartaglia, Berlusconi – in buone condizioni e senza segni al volto – si adopera innanzitutto per cercare un riavvicinamento con il presidente della Camera. Il premier e Fini s’incontrano due volte in pochi giorni. Le dichiarazione ai margini dei colloqui sono concilianti, nei comunicati ufficiali si parla di maggiore concertazione dell’azione politica e di toni cordiali, ma il rapporto è ormai logoro e la scissione comincia ad apparire come un’ipotesi non troppo remota.

Il ddl sul processo breve
Al di là delle lotte interne al Pdl, l’altro tema che caratterizza il principio del 2010 è l’esame del disegno di legge sulla “tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi”, ovvero il cosiddetto processo breve. Il ddl – che rende possibile l’estinzione di alcuni procedimenti di grande interesse pubblico, da quello della Cirio a quello della Parmalat, oltre a quelli che vedono imputato il presidente del Consiglio – viene approvato al Senato il 20 gennaio (163 “sì”, 130 “no”), in un clima incandescente dentro e fuori dall’Aula. Le contestazioni sono feroci. Berlusconi – che nel decimo anniversario della morte ricorda Bettino Craxi, amico e “protagonista della storia repubblicana” – appare solo moderatamente soddisfatto. Il provvedimento, sostiene il Cavaliere, va nella giusta direzione e non corre il rischio di essere incostituzionale – “è l’Europa che ci chiede tempi certi ed è la stessa Costituzione che ci dice che i processi devono avere tempi ragionevoli” –, ma non risolve il problema, poiché i tempi della giustizia italiana restano eccessivi (“Chi è chiamato dentro il girone infernale del processo in Italia è una persona persa”, chiosa amaramente). Il commento del premier va però oltre e si sposta sui processi che lo vedono coinvolto: Berlusconi, senza mezzi termini, definisce le corti chiamate a giudicarlo dei veri e propri “plotoni di esecuzione”. Le polemiche sul processo breve, a tratti accesissime, si trascinano fino a settembre, quando, dopo tante critiche, il ddl viene infine accantonato.

Un cartone animato
La figura del Cavaliere attira sempre grande interesse, tanto in Italia quanto all’estero. In Russia il premier è addirittura uno dei protagonisti di una serie televisiva di cartoni animati. “Mult Lichnosti”, questo il nome, è una parodia dei principali attori mondiali della politica e dello spettacolo. Tra le caricature di Obama, Sarkozy e Merkel, spicca quella di Berlusconi, playboy e gran cerimoniere dall’indole festaiola, capace, tra una battuta e l’altra, di declamare in pubblico le poesie di Vladimir Majakovskij, sollecitando l’ilarità di Putin.

Tra Israele e Albania
All’inizio di febbraio, mentre la Camera approva in prima lettura le legge sul legittimo impedimento (316 “sì”, 239 “no”), il Cavaliere si reca in visita in Israele e Palestina. Parlando alla Knesset – dove il premier israeliano Netanyahu ricorda l’eroismo di Rosa Bossi Berlusconi, protagonista, durante la Seconda guerra mondiale, del salvataggio di una ragazza ebrea fermata dai nazisti –, ricorda il giorno in cui andò per la prima volta in visita ad Auschwitz (un giorno, dice, “che ha cambiato la mia vita”) e invoca sanzioni contro l’Iran. Nell’occasione si reca anche a Betlemme, dove, al cospetto di frati francescani, suore e prelati ortodossi, si lascia andare a una barzelletta su Giuseppe e Maria.
Pochi giorni dopo, il 12 febbraio, il Cavaliere riceve il collega Sali Berisha, a cui manifesta l’interesse dell’Italia per la costruzione di centrali nucleari in Albania. A margine del dibattito sull’immigrazione c’è ancora una volta spazio per un siparietto, in un clima da vecchi amici: Berlusconi sottolinea l’impegno italiano contro gli sbarchi, ma, tra il serio e il faceto, promette “qualche eccezione per le belle ragazze”, ricordando il proprio status di uomo separato e dunque libero.

Le “giustizia spiritica” di Ciancimino jr.
Nel processo di Palermo all’ex generale dei Carabinieri Mario Mori, Massimo Ciancimino – figlio del defunto sindaco del capoluogo siciliano, Vito Ciancimino – afferma che la nascita di Forza Italia sarebbe stata il frutto di una trattativa fra stato e mafia. Nell’immediato Berlusconi non replica, ma in privato si mostra indignato e confida ai suoi fedelissimi che si tratta del solito copione preelettorale, finalizzato a disturbare la campagna per le imminenti regionali. Poi però, il 10 febbraio, il Cavaliere rilascia una dichiarazione particolarmente sarcastica: “Siamo ormai alla giustizia spiritica, con qualcuno che riferisce parole di qualcuno che è morto da diversi anni”.

Un diluvio (l’ennesimo) di inchieste
Alla fine di gennaio la Protezione civile italiana viene inviata ad Haiti per concorrere a fronteggiare l’emergenza di un devastante terremoto. A margine di quest’intervento, Roma e Washington entrano di nuovo in contrasto: Guido Bertolaso – uomo vicinissimo al Cavaliere, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, capo della Protezione civile – critica la gestione “muscolare” dei soccorsi da parte degli statunitensi, suscitando la risentita reazione del segretario di stato Hillary Clinton. Berlusconi prima difende Bertolaso, poi fa un invito a “evitare dichiarazioni che possono involontariamente innescare polemiche”.
Benché la controversia con gli Usa si plachi, la figura del capo della Protezione civile resta al centro dell’attenzione. Il 29 gennaio il premier ne annuncia la promozione a ministro per i meriti acquisiti nella gestione del terremoto dell’Aquila. Pochi giorni dopo è però costretto a fare rapidamente marcia indietro: il 10 febbraio Bertolaso riceve infatti un avviso di garanzia nell’ambito delle indagini sugli appalti per il G8 dell’anno precedente. La difesa del premier è totale. “Pare ci sia uno sport nazionale”, denuncia, per “andare a deprimere coloro che operano per il bene del paese”. Berlusconi respinge le dimissioni del sottosegretario, indagato per corruzione, e attacca i giudici. Intanto però emergono ulteriori polemiche – alimentate sia dall’opposizione sia dalla fondazione FareFuturo, vicina a Gianfranco Fini – per il tentativo del governo, inserito nell’art. 16 del decreto sulle emergenze, di privatizzare la Prociv creando la “Protezione civile spa”. A metà febbraio il progetto viene accantonato, e Gianni Letta spiega che la Protezione civile “rimane un dipartimento della presidenza del Consiglio” con funzioni e strutture che restano pubbliche.
Il caso Bertolaso non è l’unica preoccupazione del Cavaliere. In breve tempo un diluvio di inchieste si abbatte su esponenti del governo e della maggioranza. Il sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino viene indagato per presunte collusioni con la camorra; il coordinatore del Pdl Denis Verdini viene coinvolto in inchieste per corruzione; il senatore Nicola Di Girolamo, accusato di essere stato eletto all’estero con il sostegno della ‘ndrangheta e per questo destinatario di una richiesta di arresto, è costretto alle dimissioni (che rassegna il 1° marzo). Mentre il “popolo viola” scende in piazza contro Berlusconi, e con le elezioni regionali ormai alle viste, il governo sembra perdere pezzi e credibilità.

Al voto (amministrativo)
La campagna elettorale per le regionali si caratterizza innanzitutto per il caos che si verifica nella presentazione di alcune liste di centrodestra in Lombardia e nel Lazio. Mentre la lista a sostegno di Roberto Formigoni viene riammessa, la lista del Pdl a Roma e provincia resta esclusa (nulla può neppure un apposito decreto del governo emanato dal presidente della Repubblica).
In un clima di aspre polemiche, con entrambi gli schieramenti che scendono in piazza per la controversia sulle liste, l’avvicinamento alle elezioni è segnato anche dall’approvazione della legge sul legittimo impedimento (la norma che permette al premier e ai ministri di giustificare in alcuni casi la propria assenza in Aula, licenziata il 10 marzo, dopo due votazioni di fiducia), e dall’ennesima inchiesta, questa volta partita da Trani, che investe il Cavaliere. Secondo l’accusa – che gli addebita reati di concussione e minacce –, Berlusconi avrebbe esercitato pressioni sull’Autorità garante delle comunicazioni per far chiudere la trasmissione di Michele Santoro “Anno zero”. Il premier giudica l’inchiesta scandalosa e grottesca, conferma di essere intervenuto contro “i processi in tv” e definisce le proprie posizioni in merito “non soltanto lecite ma doverose”.
Durante la campagna elettorale – animata anche dal movimento dei Promotori della libertà di Michela Vittoria Brambilla – il leader del Pdl è attivissimo (al contrario di Fini, volutamente distante dalla contesa). Dall’“atmosfera avvelenata” della politica Berlusconi si concede una pausa il 14 marzo, quando partecipa alla festa per i 90 anni di don Luigi Verzè, fondatore e animatore dell’ospedale San Raffaele. Nell’occasione il premier ipotizza l’allungamento della vita umana a 120 anni e scherza con il festeggiato (“Quando mi confessa mi dà l’assoluzione senza neppure sentire i miei peccati perché conoscendomi già li conosce”), dal quale riceve elogi in serie: il Cavaliere è per don Verzè uno “statista di fama mondiale”, “un personaggio storico nato nella fede cristiana e ispirato alla fraternità”.
Il 28 e 29 marzo si tengono le elezioni regionali. Il centrodestra ottiene un sonoro successo vincendo in Lombardia, Veneto, Piemonte, Lazio, Campania e Calabria, mentre il centrosinistra conserva Toscana, Emilia Romagna, Liguria, Umbria, Marche, Basilicata e Puglia. Alla coalizione guidata dal Pdl vanno anche le 4 province in cui si vota (Imperia, Caserta, L’Aquila e Viterbo), mentre al comune di Venezia vince il candidato di centrosinistra. Ai ballottaggi di aprile la maggioranza vince a Mantova, mentre l’opposizione ottiene le amministrazioni di Vibo Valentia, Macerata e Matera. Per Berlusconi la vittoria nelle regioni più popolose è il riconoscimento all’azione del governo e al suo impegno personale: “Sono sceso in campo – dichiara con particolare riferimento al Lazio (dove Renata Polverini vince anche senza l’appoggio formale della lista del Pdl – e questa è la mia vittoria”.

“Che fai, mi cacci?”
Le divergenze tra Berlusconi e Fini continuano (anzi, si acuiscono) anche dopo la vittoria elettorale. Contrasti evidenti emergono sui temi più disparati, dalla riforma elettorale – auspicata dal presidente della Camera e osteggiata dal leader di Arcore –, al ruolo del capo dello stato – il Cavaliere lamenta la cavillosità dei tecnici del Quirinale, che analizzerebbero anche i singoli aggettivi dei testi sottoposti a Napolitano –, fino al libro “Gomorra “ di Roberto Saviano (che secondo il premier dà un’immagine sbagliata dell’Italia). Il solco che divide Berlusconi da Fini diventa sempre più profondo, le distanze incolmabili.
In questo clima si consuma una resa dei conti astiosa e carica di teatralità. Il 15 aprile i due cofondatori del Pdl s’incontrano a pranzo. Nell’occasione, dopo un’accesa discussione in cui imputa a governo e partito di andare a traino della Lega, Fini si dice pronto a creare gruppi parlamentari autonomi. La replica del Cavaliere, sostenuto dagli ex colonnelli di An Gasparri e La Russa, è tranchant: l’eventuale creazione di gruppi diversi dal Pdl comporterebbe una scissione ed escluderebbe il presidente della Camera dal partito. Pochi giorni dopo, Fini decide la costituzione di una corrente interna al Popolo della Libertà, mentre Fare Futuro attacca ancora il premier, sostenendo l’esistenza di due diversi (e inconciliabili) modi di “pensare la politica”: uno populista e plebiscitario, l’altro legalitario e rispettoso dei valori repubblicani. Berlusconi ribatte che l’ex leader di An dovrà adeguarsi alla maggioranza del partito.
Il 22 aprile, in occasione della riunione della direzione nazionale del Pdl, si arriva al redde rationem. Clamoroso e plateale. I due cofondatori si scontrano pubblicamente. Berlusconi apre i lavori rivendicando la vittoria elettorale e proponendo un congresso del partito entro l’anno. Poi tocca a Fini che invoca la “difesa della legalità”, attacca il ddl sul processo breve ed espone una serie di richieste: dal ridimensionamento del ruolo della Lega alla creazione di luoghi di discussione interni al Pdl, fino alla rimodulazione del programma di governo (soprattutto in materia economica). Il Cavaliere torna sul podio esordendo così: “Mi sembrava di sognare”. Quindi sostiene che il Pdl non è la fotocopia del Carroccio, ma semmai è quest’ultimo ad aver ripreso le posizioni di An sull’immigrazione. Poi attacca frontalmente Fini: accusa i deputati finiani di aver esposto il Pdl al pubblico ludibrio (il riferimento è a una trasmissione televisiva durante la quale Maurizio Lupi si è violentemente scontrato con Italo Bocchino e Adolfo Urso); rinfaccia all’ex leader di An di avergli detto di essersi pentito di aver contribuito alla fondazione del partito unico di centrodestra; gli annuncia la messa in vendita del Giornale; poi lo invita a dimettersi dalla presidenza della Camera. “Le tue richieste – dice Berlusconi a Fini – non sono di grande importanza. E comunque un presidente della Camera non deve fare dichiarazioni politiche. Se le vuoi fare devi lasciare la carica, ti accoglieremo a braccia aperte”. A questo punto l’ex leader di An si alza in piedi e sembra volersene andare, ma poi replica: “Perché sennò che fai, mi cacci?”. La resa dei conti si conclude così, con un velenoso battibecco a beneficio delle telecamere, che trasforma Fini in una sorta di eroe mediatico, dimostratosi capaci di puntare il dito contro il padre-padrone del Pdl. La scena diviene un cult sulla Rete e scatena commenti e analisi sulla stampa italiana e internazionale. Al termine dei lavori viene approvato a larghissima maggioranza (i voti contrari sono solo 11) un documento che esprime pieno sostegno alle posizioni espresse dal Cavaliere, ribadendo la contrarietà del partito alla costituzione di correnti. Lo strappo è così consumato. Bersani plaude a Fini e auspica un “patto repubblicano” fra tutti coloro che si oppongono a Berlusconi.

Giuliano Ferrara, intervistato dal Corriere della Sera, invita il premier a “comporre un accordo sensato”, per evitare “l’emarginazione di un’area” (altrimenti, sostiene, il Cavaliere diventa un “reuccio populista”). Il quotidiano spagnolo el Pais si spinge anche oltre, parla di giornata storica e attribuisce a Fini il titolo di “capo dell’opposizione”.
Tra le prime conseguenze politiche della rottura ci sono le dimissioni di Italo Bocchino da vice capogruppo vicario del Pdl: il deputato finiano lascia l’incarico accusando Berlusconi di averlo voluto epurare.

Pdl, l’inizio della crisi
Dopo la scissione finiana, il Pdl deve affrontare nuove difficoltà. Coinvolto nell’inchiesta sugli appalti per il G8 dell’Aquila e accusato di aver acquistato una casa a Roma con denaro versato per suo conto da un imprenditore, il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, è costretto a dimettersi. E’ il 4 maggio. Il giorno successivo Berlusconi assume l’interim del dicastero rimasto vacante. Diviene un tormentone l’argomento con cui Scajola, durante una conferenza stampa, prova a spiegare che il pagamento della casa è avvenuto “a sua insaputa”.
Anche un altro importante esponente dell’establishment del Pdl è coinvolto in un’inchiesta: Denis Verdini, uno dei tre coordinatori del partito, è indagato con l’ipotesi di corruzione per alcuni appalti in Sardegna. E’ l’inizio del caso-P3, della presunta associazione segreta finalizzata a pilotare sentenze e concessioni di lavori che Berlusconi definirà come “quattro sfigati pensionati”. Nel registro degli indagati finiscono – tra gli altri – anche Marcello Dell’Utri, Ugo Cappellacci e Nicola Cosentino.
Alle inchieste si aggiungono le fibrillazioni che lacerano il partito a livello locale. Al caso della Sicilia – dove il Pdl è in parte al governo della regione, in parte all’opposizione –, si aggiunge il caso di Bolzano, dove si contrappongono il Pdl da un lato e il “Pdl-Berlusconi presidente”, sostenuto da Micaela Biancofiore, dall’altro.
La crisi del principale partito di maggioranza è acuita dal rifiuto della presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, di entrare al governo. Alla fine di maggio, il Cavaliere si rivolge così alla platea degli industriali: “Come vedreste la Marcegaglia al fianco del presidente del Consiglio per dargli una mano? Votate per Emma al ministero delle Attività produttive”. Ma dalla sala, dove è palpabile l’imbarazzo per l’inusitata offerta, nessuna reazione. E il premier ribatte: “Allora non potete prendervela più con il governo”. Contro l’esecutivo si scaglia anche il docufilm “Draquila. L’Italia che trema”, una durissima pellicola di Sabina Guzzanti sulla gestione del terremoto abruzzese, presentata fuori concorso al Festival di Cannes il 13 maggio.
In evidente crisi, il Pdl registra un forte calo (-14 per cento rispetto alle regionali dell’anno precedente) alle elezioni provinciali della Sardegna: 2 province vanno al centrodestra, 6 al centrosinistra.

“Comandano i miei gerarchi”
Il 27 maggio Berlusconi è a Parigi per la riunione dell’Ocse. Nel corso della conferenza stampa conclusiva, il Cavaliere fa un paragone fra sé e Benito Mussolini, lamentandosi per gli scarsi poteri decisionali di cui gode la presidenza del Consiglio. Ai giornalisti legge un passo tratto dai “Diari” (pubblicati da Dell’Utri e considerati dagli studiosi un falso conclamato) del capo del fascismo per far capire alla platea internazionale che “il potere se esiste non esiste addosso a coloro che reggono le sorti dei governi”. “Dicono che ho potere – questo il brano di Mussolini scelto da Berlusconi –, non è vero, forse ce l’hanno i gerarchi ma non lo so. Io so solo che posso ordinare al mio cavallo di andare a destra o a sinistra, e di questo posso essere contento”.

Il caso-Brancher
Il 2 giugno Berlusconi interrompe la trasmissione “Ballarò” e, in diretta telefonica, attacca il giornalista di Repubblica Massimo Giannini. L’intervento del premier è stizzito: nega di aver giustificato, in passato, l’evasione fiscale (“menzogne assolute”), giudica falsi i sondaggi prodotti durante la puntata, quindi riattacca l’apparecchio, provocando le proteste del conduttore Giovanni Floris. Qualche giorno dopo un altro episodio suscita polemiche. Dopo un incontro romano con il capo del governo spagnolo, Berlusconi abbandona la conferenza stampa prima che i giornalisti iberici possano porgergli domande, invitandoli a rivolgersi solo a Zapatero, in condizioni di “grazia assoluta” per essere stato da poco ricevuto dal Papa. Di lì a poco, Palazzo Chigi interviene per smentire “interpretazioni malevole” dell’episodio e precisa che quello di Berlusconi è stato solo “un atto di cortesia” verso l’ospite spagnolo, senza nessuna rottura del protocollo.
All’inizio dell’estate il dibattito politico si concentra su due temi: il disegno di legge sulle intercettazioni da un lato e il cosiddetto caso-Brancher dall’altro. In tema di intercettazioni Berlusconi entra in contrasto sia con Fini, sia con Napolitano, sia con l’Anm (mentre il premier sostiene che gli italiani intercettati sono 7,5 milioni, i magistrati dichiarano che quel dato ammonta ad una cifra decisamente inferiore), sia con il mondo del giornalismo (in merito alle proteste dell’ordine il Cavaliere sostiene che dovrebbero essere i lettori a scioperare “per insegnare ai giornali a non prenderli in giro”).
Il 18 giugno, su proposta del premier, il presidente della Repubblica nomina Aldo Brancher ministro senza portafoglio per l’Attuazione del federalismo. L’incarico suscita subito una ridda di proteste: il nuovo membro del governo – già sacerdote paolino, dirigente Fininvest coinvolto in Tangentopoli, uomo di raccordo tra Pdl e Lega – è infatti imputato nel processo sulla tentata acquisizione della banca Antonveneta da parte di Gianpiero Fiorani. Pochi giorni dopo la nomina, il 24 giugno, il neoministro invoca il legittimo impedimento, suscitando la reazione del capo dello stato. Con una nota, Napolitano precisa che Brancher ha solo un incarico senza portafoglio, ragion per cui non può avere impegni istituzionali che ne ostacolino la presenza in tribunale. Berlusconi minimizza, definisce il caso una “piccola questione interna”, ma le polemiche attorno all’incarico s’incrementano rapidamente (Di Pietro parla di un “ministero barzelletta”, Famiglia cristiana di “ministro del nulla”). Tanto che il 5 luglio, a soli 17 giorni dalla nomina e prima che il Parlamento voti la sfiducia nei suoi confronti, Brancher rassegna le proprie dimissioni.

“Ghe pensi mi”, l’espulsione dei finiani
Il 2 luglio, al ritorno dal vertice del G20, Berlusconi trova molti problemi aperti e annuncia di volerli risolvere personalmente. “Ghe pensi mi”, afferma il Cavaliere, ricorrendo a una tipica espressione milanese durante un’intervista al Tg1.
Nell’immediato però i problemi sembrano moltiplicarsi. Mentre il possibile riavvicinamento con l’Udc (che propone un governo di responsabilità nazionale) ottiene il pubblico veto della Lega, l’esecutivo perde il suo terzo esponente in due mesi: dopo Scajola e Brancher, il 14 luglio si dimette anche il sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino, indagato nell’ambito dell’inchiesta sulla P3. Le dimissioni arrivano prima del voto di sfiducia contro l’esponente del Pdl, programmato dal presidente della Camera per la settimana successiva (tra le veementi proteste della maggioranza). A Cosentino – che attacca Fini – va l’esplicita solidarietà del Cavaliere.
Il 20 luglio si trova finalmente un accordo sul disegno di legge sulle intercettazioni: il divieto di pubblicazione, questo il compromesso, cade se i contenuti sono “rilevanti”. Berlusconi giudica però l’intesa insoddisfacente, ritiene che non risponda alla necessità di garantire la riservatezza delle comunicazioni. La legge sulle intercettazioni è stata “massacrata” da tutti gli interventi che ha subito: “Sono tentato di ritirarla”, dichiara il premier contrariato.
Il “ghe pensi mi” del premier si materializza alla fine di luglio, quando il rapporto con Fini si esaurisce definitivamente, sfociando nell’espulsione del presidente della Camera e dei suoi fedelissimi dal Pdl. Il 28 luglio il Foglio pubblica un’intervista in cui l’ex leader di An tende la mano al premier, auspicando una ricomposizione delle fratture “senza risentimenti”. Ma il ramoscello d’ulivo, giudicato dal premier tardivo (“Non basta solo un’intervista all’ultimo momento utile, sollecitata per giunta da un giornalista, a farmi dimenticare tutto”), non sortisce alcun effetto. Il giorno successivo, con 33 voti su 36, l’ufficio politico del Popolo della Libertà approva un documento che condanna l’operato di Gianfranco Fini (le cui posizioni sono definite “assolutamente incompatibili con i principi ispiratori del Pdl” e con gli impegni assunti nei confronti degli elettori), e chiede il deferimento ai probiviri del partito dei deputati Italo Bocchino, Fabio Granata e Carmelo Briguglio. “Sto male, mi piange il cuore”, dice il premier ai membri dell’ufficio politico prima della votazione. Ma il rapporto, aggiunge il Cavaliere, non è più “ricucibile”: “Per due anni, mentre il governo affrontava con successo sfide difficilissime, prima fra tutte la crisi economica più grave dal 1929 (…), altri all’interno della nostra formazione politica remavano contro”. L’affondo del premier, affidato a un video messaggio ai Promotori della libertà, è durissimo: “Alcuni eletti dal Pdl, sempre sostenuti dall’onorevole Fini, hanno lavorato in modo sistematico per svuotare, rallentare, bloccare il nostro lavoro. Peggio, hanno offerto una sponda ai nostri nemici, all’opposizione, ai settori politicizzati della magistratura, a certa stampa, ai peggiori giustizialisti, accreditando in questo modo un’immagine falsa e diffamatoria del Popolo della libertà”.
Il 30 luglio Fini annuncia la decisione di creare i gruppi parlamentari di Futuro e libertà per l’Italia (Fli), e accusa Berlusconi di gestire il Pdl con una logica aziendale e con una concezione illiberale della democrazia. Il Cavaliere replica invitando l’ex leader di An a comportarsi come fece Pertini, che, nel 1969, a seguito della scissione fra socialisti e socialdemocratici, si dimise dalla presidenza della Camera. Lo strappo giunge così all’ultimo atto, creando seri problemi alla stabilità della maggioranza. Tra le tante reazioni spicca quella di Giuliano Ferrara, secondo il quale la decisione di Berlusconi “è un errore”, poiché “è brutta l’immagine di un leader politico che caccia una persona che dice di pensarla in modo diverso da lui e di voler continuare a collaborare lealmente dentro lo stesso partito”.

Montecarlo
Tra la fine di luglio e l’inizio di agosto il Giornale di Feltri – seguito a ruota da Libero di Maurizio Belpietro – accusa ripetutamente Gianfranco Fini di aver permesso che un immobile di Montecarlo, ricevuto in eredità dalla contessa Anna Maria Colleoni per la “buona battaglia” di Alleanza nazionale, fosse ceduta a Giancarlo Tulliani, fratello di Elisabetta, compagna del presidente della Camera. La campagna di stampa scatenata dai giornali berlusconiani sulla casa di Montecarlo è violentissima. Sul caso viene aperta un’inchiesta sollecitata da una denuncia di due esponenti della Destra di Francesco Storace. Fini replica querelando il quotidiano della famiglia Berlusconi e plaude all’apertura delle indagini, rimettendosi “alle decisioni della magistratura” (che in effetti, a distanza di mesi, non rileverà alcun profilo penale nella vicenda, destinata tuttavia a restare oscura: chi ha acquistato effettivamente l’immobile, attraverso una società offoshore, ed è realmente nella disponibilità del cognato di Fini?).
La vicenda rinfocola le polemiche tra il presidente del Consiglio e il presidente della Camera. Il Giornale lancia una raccolta di firme per chiedere le dimissioni di Fini, mentre Fare Futuro, attraverso Filippo Rossi, accusa il Cavaliere di fare politica “con il dossieraggio e con i ricatti, con la menzogna che diventa strumento per attaccare l’avversario e distruggerlo”. Intanto però si avvicina la ripresa dei lavori parlamentari, e Berlusconi – addolorato per la scomparsa di Francesco Cossiga, “amico carissimo, affettuoso, generoso” (l’ex capo dello stato muore a Roma il 17 agosto 2010) – avverte Futuro e libertà che sull’approvazione dei 5 punti per il nuovo programma di governo non accetterà trattative.

Il “sopravvissuto”
Il 5 settembre, alla tradizionale Festa tricolore di Mirabello, Fini torna sulla rottura con Berlusconi e dichiara: “C’è il partito del predellino, ma il Popolo della libertà non c’è più. E’ in qualche modo Forza Italia che si è allargata”. Il presidente della Camera scaglia duri fendenti contro il Cavaliere. “Non ho mai contestato la leadership di Berlusconi – dice – ma lui ha l’attitudine a confondere la leadership con il ruolo che nelle aziende hanno i proprietari: il Pdl non può essere derubricato a contorno di un leader”. Il premier – contrario a ogni ipotesi di “governicchio” – contesta le affermazioni di Fini, ne chiede (nuovamente) le dimissioni da presidente della Camera e intanto si adopera per allargare la maggioranza nel tentativo di affrancarla da Fli. Inizia un andirivieni di parlamentari – c’è chi parla di un vero e proprio “mercato” – che alla fine si rivelerà letale per il centrodestra berlusconiano.
Attorno alla metà di settembre, mentre Fini si dice disposto all’autodestituzione nel caso si dimostrasse che la casa di Montecarlo è stata effettivamente acquistata da Tulliani, il segretario del Pri Nucara annuncia la costituzione di un nuovo gruppo a sostegno dell’esecutivo. Il 29 settembre, al momento del voto di fiducia sul nuovo programma del governo (giustizia, fisco, federalismo, sicurezza e mezzogiorno), i 32 voti di Fli risultano però decisivi. Il mancato raggiungimento di “quota 316”, ovvero l’indipendenza numerica dai finiani, è per il Cavaliere motivo di profonda delusione.
Come in altre occasioni simili, la stampa estera s’interessa con voracità delle vicende italiane. “Silvio, the survivor”, Silvio il sopravvissuto: questo il titolo con cui l’Economist accoglie l’esito della votazione. Il voto, sostiene il settimanale britannico, permette al Cavaliere di “sopravvivere” e di continuare “la sua alleanza senza amore con Fini”. Il matrimonio tra i due cofondatori, chiosa il settimanale britannico, “è in brandelli”: “dormono in letti separati ma, per ragioni di convenienza, sotto lo stesso tetto”.
Dopo la fiducia del 25 settembre il premier appare in grande difficoltà. Al restringimento della maggioranza si somma il peggioramento dei rapporti con il Vaticano. Il 1° ottobre vengono infatti diffusi due filmati, messi in rete da “Repubblica” e da “L’Espresso”, in cui Berlusconi prima si scaglia contro i giudici, poi racconta una barzelletta sugli ebrei e una su Rosy Bindi, concludendola con un’espressione blasfema. Immediato l’attacco dell’Osservatore romano – che definisce le battute deplorevoli e offensive per i credenti e per la memoria della Shoah – e dell’Avvenire. Il leader di Arcore prima cerca di sminuire l’episodio, poi dichiara: “Mi spiace solo se qualcuno nella sua sensibilità si è sentito turbato. Ma non ci credo. E’ soltanto un pretesto per attacchi strumentali e ipocriti”.

Ruby Rubacuori
A partire dalla fine di ottobre Silvio Berlusconi è al centro di un nuovo, fragoroso scandalo sessuale e di una nuova, conseguente bufera giudiziaria. Dopo alcuni articoli pubblicati dal Fatto Quotidiano, scoppia il cosiddetto caso Ruby. Il 28 ottobre Repubblica racconta che, nella notte tra il 27 e il 28 maggio 2010, la 17enne marocchina Karima El Mahroug, alias Ruby Rubacuori (come verrà presto definita dalla stampa), venne condotta in questura, a Milano, con l’accusa di aver sottratto circa tremila euro alla sua coinquilina. Priva di documenti, dopo le foto di rito, la ragazza, allora appunto minorenne, stava per essere inviata a una comunità. Arrivò però una telefonata dalla presidenza del Consiglio – prosegue la ricostruzione del quotidiano – con la quale si chiese di lasciarla andare, poiché nipote del presidente egiziano Mubarak (circostanza poi rivelatasi falsa), onde evitare possibili problemi diplomatici. A questo punto, racconta ancora il quotidiano romano, Ruby fu affidata – secondo quanto previsto dalla legge per i minori – a Nicole Minetti, igienista orale del premier eletta alla regione Lombardia.
Il caso, ancora solo agli esordi, provoca una ridda di reazioni. Innanzitutto dell’opposizione, che chiede le immediate dimissioni del Cavaliere. Il quale, a sua volta, reagisce, descrive come “spazzatura mediatica” le ricostruzioni dei giornali, e si difende così: “Sono uno di cuore. Mi muovo per aiutare le persone in difficoltà”.
Intanto però viene aperta un’inchiesta per favoreggiamento della prostituzione e il caso si arricchisce di particolari: Ruby – che si dice “dispiaciuta” per il coinvolgimento di persone che l’avrebbero aiutata “senza chiedere niente in cambio” – parla di feste ad Arcore all’insegna del cosiddetto “bunga bunga”, chiamando in causa il direttore del Tg4 Emilio Fede e l’agente Lele Mora: supposti procacciatori di ragazze per le serate sexy del Cavaliere.
La notizia fa immediatamente il giro del mondo. Già il 29 ottobre, da Bruxelles, dove si trova per il Consiglio europeo, Berlusconi passa all’attacco: “Io sono una persona giocosa, piena di vita. Amo la vita, amo le donne”. Quindi il premier parla di “balle inventate” dai giornali, ipotizza un complotto (“Non so se il momento sia casuale, so che c’è sicuramente dietro una volontà precisa di aggressione”) e si difende ancora: “Nessuno, all’età che ho, può farmi cambiare il mio stile di vita del quale sono assolutamente convinto”. “Faccio una vita terribile, con sforzi disumani, lavoro come nessuno lavora”, dichiara. “Se ogni tanto sento il bisogno di una serata distensiva – aggiunge il Cavaliere –, quando racconto una storiella, per terapia mentale, per pulire il cervello da tutte le preoccupazioni, credo che faccia parte della mia personalità”. “Ho solo dato un aiuto”, anche perché, chiosa Berlusconi, “so bene quali poteri abbia il primo ministro in Italia: nessuno. (…) Ho mandato qualcuno per aiutare una persona, che aveva un quadro di vita tragico, e per non farla consegnare ad una comunità o al carcere”. E ancora: “Non devo chiarire nessuna frequentazione. In casa mia entrano solo persone perbene e si comportano correttamente”. Infine, a chi gli chiede del “bunga bunga”, il premier risponde che si tratta “solo di una vecchia storiella bellissima” (che gli avrebbe raccontato per primo Gheddafi): niente a che vedere dunque con le cene accompagnate da spogliarelli, spettacoli erotici e accoppiamenti sessuali nella saletta riservata detta appunto del “bunga bunga” di cui parlano i giornali e sui quali fantasticano morbosamente gli italiani.
In difesa di Berlusconi intervengono, tra gli altri, la stessa Ruby (“Sei un gentiluomo, peccato che la gente non sappia quello che sei veramente”, dichiara rivolgendosi al premier), il cantante Zucchero (“Preferisco le persone goliardiche alle mattonate irreprensibili”) e, soprattutto, Giuliano Ferrara. Berlusconi, secondo il direttore del Foglio, “ha fatto benissimo a dire spavaldo che ama la vita e le donne”. Il Cavaliere, aggiunge Ferrara, “non è puritano”, “è un uomo della folla, peccatore per definizione”, “è anche, a suo modo, quel che si dice bonariamente un puttaniere”, ma questo “non gli ha impedito di fare cinque figli, di nutrire del suo affetto due famiglie e due matrimoni”.
Molto più numerosi gli attacchi. Tra i più decisi c’è quello di Famiglia Cristiana. Il settimanale dei paolini ricorda le parole di Veronica Lario circa la presunta satiriasi del Cavaliere, e ritiene “incredibile che un uomo di simile livello non abbia il necessario autocontrollo. E che il suo entourage stia a guardare”. Il finiano Briguglio parla di “tramonto del berlusconismo”. La stampa estera, dalla Francia all’Argentina, attacca Berlusconi con forza, mettendolo al tempo stesso in ridicolo per la sua incontrollabile sfrenatezza sessuale. Bill Emmott, sul Times di Londra, prospetta addirittura l’imminente “fine di un regno”. La marea delle polemiche monta. Il caso assume proporzioni sempre maggiori. Il “bunga bunga” diviene, nel giro di poche settimane, un tormentone internazionale (verranno persino realizzati filmati, strisce a fumetti e animazioni grafiche, dal Giappone agli Stati Uniti), che getta sull’immagine pubblica di Berlusconi un vasto discredito.
Il Cavaliere continua a difendersi (“Meglio essere appassionati di belle ragazze che di gay”) e si dice convinto che “tutto si risolverà in una tempesta di carta”. Al contrario, il caso Ruby resta al centro della cronaca da lì per tutti i mesi successivi, si diffondono video di Mora che arriva ad Arcore con processioni di donne (le cosiddette “olgettine”, dal nome di una strada di Milano dove alloggiavano alcune delle ragazze coinvolte nello scandalo in quanto abituali frequentatrici delle feste organizzate dal Cavaliere), l’inchiesta prosegue e investe il premier, rinviato a giudizio per concussione e prostituzione minorile.

Maggioranza appesa a un filo
Il 6-7 novembre, a Bastia Umbra (Perugia), si consuma un’altra puntata – quella politicamente risolutiva – dell’aspro scontro tra Fini e Berlusconi: durante la prima convention nazionale di Fli, il presidente della Camera sostiene che il Cavaliere “si deve dimettere”. Se vuole rilanciare il patto di legislatura, questa la posizione di Fini, il premier “dia un colpo d’ala, salga al Colle, si dimetta e apra la crisi di governo”. In caso contrario, questo l’ultimatum, Fli uscirà dall’esecutivo.
L’invito-provocazione, subito respinto dal Cavaliere, comporta l’uscita dei finiani dal governo e una mozione di sfiducia che viene votata il 14 dicembre, pochi giorni dopo un discusso incontro ad Arcore tra Berlusconi e il sindaco Pd di Firenze Matteo Renzi. Mentre l’esito della sfiducia al Senato è scontato (162 “no” e 135 “sì”), alla Camera (dove Fini aveva preannunciato il crollo dell’esecutivo, invitando il Cavaliere a dimettersi prima della votazione) si vive una giornata ricca di pathos e colpi di scena. Alla fine il governo si salva con 314 voti contrari alla sfiducia, 311 favorevoli (finiani compresi) e 2 astenuti. Decisivi i voti dei deputati Calearo, Scilipoti e Cesario, provenienti dall’opposizione, oltre a due defezioni dell’ultima ora all’interno di Fli: votano “no” Maria Grazia Siliquini e Catia Polidori, mentre Silvano Moffa – che aveva annunciato il “sì” alla sfiducia – non partecipa alla votazione. Qualche deputato del Pdl attacca Fini e ne chiede le dimissioni, definendolo addirittura un “coglionazzo”.
La maggioranza è dunque appesa a un filo. Ma il governo esulta – Berlusconi parla di vittoria numerica e politica – e va avanti. Per il Presidente della Camera si tratta di un’oggettiva e dura sconfitta, che segna l’inizio di un inarrestabile declino politico: dopo essere stato accreditato per mesi di un vasto e trasversale consenso, nei mesi successivi si troverà a guidare un partitino che i sondaggi danno all’1,5-2 per cento e a dipendere dalla benevolenza di Casini (che lo salva politicamente accogliendolo all’interno del polo centrista).
Il 23 dicembre, nella consueta conferenza stampa di fine anno, il premier rigetta le accuse di “calciomercato” dei deputati e ripercorre lo strappo con Fini, raccontando un aneddoto: “Quando mi disse che voleva fare gruppi autonomi, lo scongiurai (…) e gli dissi che non sarebbe mai riuscito a litigare con me perché per litigare bisogna essere in due. Mi guardò in modo fisso e freddo e mi rispose: ‘Sì, ma per divorziare ne basta uno solo’. Io lì capii che era una cosa lungamente preparata”. Il giorno dopo, in un messaggio inviato ai Promotori della libertà, Berlusconi va anche oltre e aggiunge: “Mentre altri ordivano congiure di palazzo, noi non abbiamo mai smesso di lavorare per l’interesse del paese”, e oggi “abbiamo l’orgoglio di traghettare verso il 2011 un’Italia più stimata, più forte e più competitiva”. Con queste parole il Cavaliere chiude il 2010. Forse l’anno politicamente più travagliato dal momento della sua discesa in campo.