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 2013  gennaio 14 Lunedì calendario

LUI SAPEVA CHE FINGERSI PROGRESSISTA FACEVA MOLTO CHIC"


Ingegner Carlo De Benedetti, ho trovato queste parole di Gianni Agnelli: "Gli uomini che lavorano sono una ricchezza, ma forse in questa direzione abbiamo ecceduto nel portare a Torino fabbriche e uomini, uomini e fabbriche". Aveva una morale del lavoro, l´Avvocato?
«Il lavoro per l´Avvocato non esisteva nei termini con cui questa parola viene universalmente concepita. Era soprattutto una derivata della sua identità sabauda. Nella pratica c´era l´essere sicuro di essersi comportato esteticamente bene. Sinceramente, non so se possedesse una morale del lavoro. Certo, ci metteva la sua straordinaria carica di curiosità, le intuizioni fulminanti e una leggerezza nel senso calviniano della parola».

Era un conservatore convinto che si premurava di diffondere l´immagine del liberal?
«Vede, per lui una persona che proveniva da Pinerolo, la terra della sua famiglia, lo interessava più di una originaria, che so... di Mondovì. Era il suo modo di essere conservatore».

Spesso ci si traveste per salvarsi da se stessi. Non ha mai avuto l´impressione che Agnelli fosse profondamente solo e intento a seppellire la solitudine con l´azzardo di una vita piena di velocità, curiosità, volubilità, una fame pantagruelica di piaceri e rischi?

«Difficile rispondere. Di fatto non era mai solo, anche perché da solo si annoiava. E poi perché, di nuovo, la sua curiosità lo portava a interessarsi non solo dei suoi collaboratori, ma anche di persone che non c´entravano niente con lui. Mi ricordo una stupidaggine: aveva voluto conoscere Madonna e me ne aveva parlato diffusamente, anche se la parola diffusamente non è adatta allo stile di comunicazione dell´Avvocato.

E ancora: mi confessò di essere rimasto ammirato dalla regina Beatrice d´Olanda, non per il suo lignaggio, figuriamoci, ma per aver scoperto che era una formidabile donna d´affari. I suoi giudizi parevano scolpiti da Cellini: se gli eri piaciuto diceva "divertente"; altrimenti "mah..." e al secondo puntino di sospensione ti aveva già dimenticato. Il giorno in cui si decise a ricevere, su mia richiesta, un imprenditore milanese che evidentemente lo deluse, mi disse: "Ma chi mi ha portato, uno dei fratelli Vanzina?". Non sopportava i mediocri».

Mi viene in mente una frase di Mario Soldati: "A Torino c´è la monarchia, a Milano la repubblica". E una dichiarazione dell´Avvocato: "Alla Fiat e nella mia famiglia basta uno per generazione che comandi e noi siamo stati tre in tutto". Ma sapeva comandare?
«Non ne aveva bisogno, chi lavorava per lui voleva essere comandato da lui. Era quasi impossibile dirgli di no, impossibile non cadere nella rete del suo fascino, in quel suo modo di guardarti da lontano dandoti allo stesso tempo l´impressione che in quel momento si interessasse esclusivamente e completamente a te. Le racconto questo: quando ero amministratore delegato della Fiat arrivavo in ufficio ogni mattina alle sette e mezzo e alle otto presiedevo le prime riunioni. L´Avvocato arrivava alle nove, suonava il campanello e si doveva andare da lui. Ogni santo giorno che Dio mandava in terra. Erano chiacchierate piacevoli e gratificanti, quasi mai inerenti all´attività del gruppo. Una mattina colse la mia impazienza, mi guardò con quella sua aria canzonatoria e disse: "Ingegnere, ma è mai possibile che tutti i giorni lei si svegli per andare in missione ad Entebbe?"».

Lei lasciò la Fiat dopo pochi mesi. Qualcuno disse che la ragione della rottura fu il suo tentativo di dare la scalata all´azienda. Lei spiegò che si dimise dopo che Gianni e il fratello Umberto dissero no a un forte ridimensionamento occupazionale. Qual è la verità?
«L´ha scritta Cesare Romiti. Nel ´76 me ne sono andato nonostante la richiesta di rimanere fattami sia da Gianni sia da Umberto. Misi sul tavolo dell´Avvocato una scelta drastica: qui bisogna tagliare subito 25mila persone, gli dissi. Ci pensò due giorni, poi mi rispose: non si può fare. In quella risposta c´erano l´eredità morale del nonno, il suo spirito sabaudo, il senso di un impegno preso nei confronti del paese e di Torino e anche il rispetto dell´onore operaio. Non potevo star lì a guardare le casse dell´azienda che si dissanguavano e me ne andai. Oggi penso questo: dal punto di vista dell´impresa avevo ragione io, da un punto di vista più ampio, direi storico e sociale, ha avuto ragione lui».

Il motto di Agnelli era: "Quel che è bene per la Fiat è bene per l´Italia". Come avrebbe reagito alle scelte di Sergio Marchionne?
«Credo sarebbe stato affascinato da Marchionne e, in particolare, il ritorno in America della Fiat lo avrebbe eccitato. Ricordo quando intrattenne discussioni serie con Lee Jacocca per un´intesa con la Chrysler. Certamente sarebbe felice di vedere che l´accordo raggiunto da Marchionne ha portato all´acquisizione della Chrysler da parte della Fiat, il che rappresenta un merito indiscutibile del Lingotto. Mi è certamente difficile paragonare pensieri e comportamenti senza tener conto di quanto è successo in questi ultimi dieci anni. L´Avvocato non ha vissuto né la globalizzazione né l´avvento pervasivo di Internet che ha modificato profondamente i nostri confini di spazio e di tempo. Non riesco, per quanto mi sforzi, a pensarlo nel mondo di oggi».

E come avrebbe interpretato l´attuale fase politica, giudicato un paese che sembra aver reso immarcescibile Berlusconi se non il berlusconismo, lenta la sinistra nel riformare se stessa, invisa la politica, odiati i partiti, esaltato il populismo?
«Gianni subiva il fascino di uomini politici forti. Penso a Lama, a Berlinguer. Berlusconi lo ha incuriosito, niente di più. Per sua formazione e convincimento profondo ripugnava ogni forma di demagogia. Credo si troverebbe molto male in questa Italia che ha tanto amato e che è diventata così piccola anche nei sentimenti e nei desideri. Temo che si sentirebbe spaesato, un principe rinascimentale privato del Rinascimento».

Esiste un erede di Gianni Agnelli?
«Era unico, la domanda non può avere risposta».
Disse: "Non mi piace il passato, non amo i consuntivi e ho avuto la fortuna di ereditare il mio futuro". Torniamo al lavoro: in questo senso la sua vita è cominciata a 40 anni?
«No. I suoi primi 40 anni non sono stati inutili. È stato un grandissimo playboy, un grandissimo viaggiatore, un grandissimo acrobata sul sottile e fragile filo della vita, ma viveva e curiosava per il dopo. Passava dai gossip di Mario D´Urso alle discussioni di politica e finanza con Kissinger. Assieme al futuro ha ereditato un impegno che non ha mai tradito e che ha servito con grande senso del dovere».

C´è qualcosa che avrebbe voluto dirgli senza esserci mai riuscito?
«Non ho alcun rimpianto per quanto riguarda il mio rapporto con lui, che è stato per me importante, nonostante le nostre evidenti differenze. No, credo di avergli detto tutto, compreso quando ho deciso di lasciare la Fiat, cosa che lo colse di grande sorpresa. Avevo fatto un errore ad accettare la sua proposta. Dissi sì per vanità, sottovalutai il fatto che, al di là di ogni ragionamento o calcolo imprenditoriale, Agnelli era la Fiat e la Fiat era Agnelli. Gli dispiacque quando glielo spiegai, ma capì e continuammo a vederci frequentemente a Torino e a Sankt Moritz. Con grande dispetto di Romiti».

Ingegnere, che cosa ha invidiato all´Avvocato?
«Dovrei dire nulla, ma preferisco risponderle che nella diversità l´invidia non esiste. Abbiamo avuto due formazioni culturali e due percorsi di vita professionale e personale troppo differenti. Di lui ho ammirato il carisma, il fascino, l´acuto culto dell´estetica. Io sono nato metalmeccanico, ho passato decenni in fabbrica e ho conosciuto da vicino il lavoro dei miei operai. Lui è nato re».


DE BENEDETTI SU AGNELLI, RICORDI RADICAL CHIC.
Bankomat per Dagospia

"Lui sapeva che fingersi progressista faceva molto chic". Una battuta di Agnelli su De Benedetti? No, il contrario, lo afferma Carlo De Benedetti a Repubblica oggi, ricordando l’Avvocato a dieci anni dalla morte.

Quello che De Benedetti non può raccontare è la formidabile battuta riferita a Bankomat da un testimone oculare, che rammentava di un pranzo fra Agnelli ed un noto editore, Fabbri, durante il quale fu chiesto ad Agnelli cosa pensasse di Romiti e di De Benedetti. La risposta fulminante, in perfetto Agnelli: "Cosa posso pensare di persone che hanno scoperto le belle donne a cinquant’anni....?".

Ma per il resto l’intervista odierna di De Benedetti e’ spettacolare ed intellettualmente onesta. Perché’ a differenza di Agnelli e di quasi tutti i potenti ammette con lucidità’ due suoi errori. Ammette che sbagliò ad accettare di guidare la Fiat, ruolo che assunse per vanità, testuale.
Ed ammette che tagliare 25 mila posti di lavoro come lui propose ad Agnelli per ristrutturare la Fiat era corretto dal punto di vista strettamente aziendale, ma che aveva ragione Agnelli a dissentire, per superiori motivi storici e sociali.

Certo fa molto chic ammettere questi errori di gioventù in apertura di una campagna elettorale dove la sensibilità per il lavoro e l’occupazione saranno decisivi. Ma aspettiamo simili taglienti autocritiche dai potenti di oggi. Quando mai Monti con eleganza farà autocritica ammettendo di aver accettato il suo ruolo per vanità e pur legittima ambizione?

O Corrado Passera riterra’ mai chic ammettere che in Banca Intesa ha sbagliato molte cose ed al Governo ha fatto davvero poco? E ve lo immaginate il Presidente Bazoli che per essere chic ammette di aver spesso sbagliato, perche’ una grande banca quotata deve rispondere agli azionisti ed al mercato in genere e non praticare sistematicamente il viceversa per superiori motivi etici? Berlusconi non rientra nei potenti dai quali attendersi qualche cosa che sappia di autocritica, chic poi...

Tornando all’Avvocato, tutti a Torino sanno che Agnelli fu spaventato dal tentativo di De Benedetti di scalare la Fiat, e fa bene Cresto Dina, da vecchio cronista torinese, a provare a ricordarlo. Ma forse e’ anche comprensibile che De Benedetti neghi e sorvoli.

Spettacolare la coda velenosa: "Continuammo a vederci frequentemente a Torino e a Sankt Moritz. Con grande dispetto di Romiti".
Buona lettura.