Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 15/01/2013, 15 gennaio 2013
LE LETTERE, I NASTRI, LA CELLA DI MORO. I MISTERI (VERI E PRESUNTI) DI GALLINARI - È
morto per via di un cuore malandato che l’aveva fatto uscire di galera e faceva le bizze anche quando lui si considerava ancora un combattente. Nei cunicoli della prigione di Rebibbia in cui — nel 1987, insieme ad altri detenuti — tentava di scavare un tunnel per evadere, gli investigatori trovarono le scatole delle medicine che prendeva Prospero Gallinari, brigatista della prima ora e carceriere di Aldo Moro, la vittima più illustre e significativa del terrorismo italiano.
È morto ieri mattina, a 62 anni compiuti il 1° gennaio, appena uscito di casa, a bordo dell’auto che usava per andare al lavoro. E c’è chi ritiene che si sia portato dietro alcuni dei misteri mai svelati. Soprattutto sul rapimento e l’omicidio di Moro, che nella primavera del 1978 deviarono il corso della storia repubblicana. La mattina del 16 marzo di trentacinque anni fa Gallinari partecipò allo sterminio dei cinque uomini della scorta del leader dc, la strage di via Fani. Subito dopo entrò nell’appartamento-prigione insieme all’ostaggio, restando chiuso con lui per 55 giorni disseminati di colpi di scena, trattative cercate o interrotte, comunicati veri e falsi, lettere, dichiarazioni, altri delitti. Fino all’esecuzione della condanna a morte, il 9 maggio. Mentre lo Stato e le Br erigevano due muri che si sarebbero rivelati insormontabili, dentro il cunicolo in cui l’avevano costretto Aldo Moro cercava inutilmente una via d’uscita. E Gallinari lo sorvegliava.
Più degli altri due inquilini del covo (Anna Laura Braghetti, che per un periodo sarà sua moglie, e Germano Maccari, morto anche lui) e meno di Mario Moretti (il «regista» che interrogava l’ostaggio e teneva i contatti col mondo esterno), il brigatista arrivato da Reggio Emilia sapeva ciò che realmente accadde fra quelle mura. Quello che, ad esempio, i brigatisti dissero a Moro prima di ucciderlo. Se, come hanno riferito i terroristi ma molti continuano a negare, il presidente democristiano fu tenuto solo in quella prigione o anche altrove. E se davvero nessun altro, a parte i tre inquilini e Moretti, ci mise mai piede. Che fine hanno fatto il memoriale originale scritto da Moro e le parti mai ritrovate, i nastri registrati dei primi interrogatori, le lettere forse non recapitate. Insomma, tutto quello che ancora non si sa, o a cui si continua a non credere, sul sequestro e sul suo tragico epilogo. Per molto tempo si disse che era stato lui il killer del prigioniero, e quando fu scagionato spiegò che il problema quasi non lo riguardava: «Nella tragicità del fatto è tutto superficiale, tutto banale; Aldo Moro è stato ucciso dalle Br». Quindi anche da lui.
In vita, prima da militante e poi da ex, Gallinari ha sempre sostenuto che non ci sono misteri su quella vicenda, almeno sul fronte brigatista: «Moro fu rapito da dieci persone; operai, studenti, precari, un assistente sociale, un artigiano, un contadino: io». Lo diceva muovendo le grandi mani che avevano afferrato prima la zappa, poi i prodotti della pressa in fabbrica e quindi pistole e mitragliette, in nome di una rivoluzione comunista che per lui — cresciuto nel mito della Resistenza tradita tramandato nelle osterie e nelle sezioni del Pci di quelle parti — era la prosecuzione ideale della guerra partigiana. Anche perché in mezzo, tra la Liberazione e la lotta armata, c’erano stati i moti del 1960, i morti della sua Reggio Emilia e di altre città, una storia che sembrava mai interrotta, in cui lui s’era buttato a capofitto, con la genuinità e la testardaggine delle sue origini. Uccidendo e rischiando di essere ucciso: nel ’79 fu arrestato (dopo un’evasione riuscita) in una sparatoria in cui restò gravemente ferito.
Un mese prima di fare fuoco sulla scorta di Moro, a Roma, il 14 febbraio 1978, uccise il magistrato Riccardo Palma, dirigente degli istituti di pena. La sua prima vittima. Nell’autobiografia intitolata, non a caso, Un contadino nella metropoli, descrisse così quel momento: «Il compagno incaricato di sparare si trova in difficoltà emotiva. Spetta a me intervenire. Anche questa volta non è la professionalità ma la concentrazione totale in cui sono immerso a darmi la freddezza e la determinazione di reagire all’imprevisto. La paura, i conti con se stessi di fronte a certe scelte e decisioni, sono tutte cose che, in questi momenti, schiacci nel profondo dello stomaco per andare oltre».
È come se, nel momento di spiegare come diventò un assassino, l’ex br Gallinari avesse fatto ricorso alla stessa freddezza scoperta mentre ammazzava un uomo ridotto a simbolo, un nemico o un ostacolo da rimuovere sulla strada del «processo rivoluzionario». E con la stessa freddezza, nel 1988, dichiarò chiusa la fase della lotta armata per «riportare la lotta sul terreno politico», al fianco di altri movimenti di massa. Erano passati dieci anni dall’omicidio di Moro, venti dai primi tumulti. Davanti ai magistrati non aveva ammesso responsabilità personali o di altri, né accusato nessuno. Mai pentito né dissociato, non più irriducibile. Solo sconfitto: «Abbiamo perso».
Giovanni Bianconi