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 2013  gennaio 11 Venerdì calendario

LA NAUFRAGA IGNOTA


[Costa Concordia]

CUSCO. Roxana stava rassettando le zuccheriere sul ponte cinque quando la luce si è spenta. Patricia aveva sentito vibrare le bottiglie, e qualcuna anche cadere, come fosse un terremoto. Il fatto che si trovassero in mare l’aveva preoccupata ancora di più. Angel era l’unico che non doveva sforzarsi di immaginare, perché sapeva. Aveva smontato, si riposava in cabina al piano zero, e lì l’impatto era risuonato sinistro, come di ossa ciclopiche che si spezzano. Poi due suoni lunghi e uno corto, il segnale di inondazione. Che altrove non si era sentito. A tutto il personale era stato dato l’ordine di tranquillizzare i passeggeri. «Solo un guasto tecnico» ripetevano.
La loro amica Erika Fani Soria Molina era al lavoro sul ponte cinque, Bar Gran Berlino. L’avrebbero rivista per la prima volta oltre un’ora dopo, verso le undici di sera, quando ormai la verità tardiva era stata pronunciata: «Abandon ship! Abbandonare la nave!». «Correva a prendere il salvagente nella stanza» ricorda Roxana, la sua compagna di camera. La seconda volta invece intrappolata in una scialuppa che andava a fondo, sovraccarica di persone in preda al panico.
Era nata venticinque anni prima a Cusco, capitale Inca a tremilatrecento metri sul livello del mare che tolgono letteralmente il fiato, sulle Ande peruviane. È morta, come altre 31 persone sulle 4252 a bordo, la notte del 13 gennaio 2012, in acque basse e neppure agitate, a circa cinquecento metri dalla costa. Su un bestione da tredici piani e 100 mila cavalli, popoloso come un pueblo, globalizzato come una Borsa asiatica e di cui lei e altri 1022 membri dell’equipaggio erano il fondamentale e ignoto motore immobile.
È passato un anno dalla tragedia della Costa Concordia. L’incidente è stato raccontato in mille modi. Compreso il derby telefonico tra il «cattivo» capitano Schettino e il «buono» comandante De Falco che gli intimava di tornare «a bordo, cazzo!». Il film dell’incidente, la moviola del nostro Titanic, ha ignorato i protagonisti minori. Liquidandoli come figuranti. Anche quando, come nel caso di Erika, di un musicista italiano e un cameriere indiano, hanno perso la vita semplicemente per aver fatto sino in fondo il proprio mestiere.
Ci è venuto in mente di provare a rimediare. Seguendo l’esempio di La breve vita di José Antonio Gutierrez, un documentario premiato al Sundance che ricostruiva la vita del primo soldato americano morto nella guerra in Iraq.
Sulla stampa peruviana Erika è diventata un’eroina da esportazione. A Cusco le hanno tributato funerali solenni. Il presidente della Repubblica le ha conferito il titolo di Ufficiale dell’Ordine al merito per aver aiutato vari passeggeri a mettersi in salvo. Questa e altre pergamene onorifiche, oltre a una cospicua rassegna stampa sulle sue gesta, sono il tesoro custodito con orgoglio dai familiari.
Nel salottino della loro abitazione nel quartiere periferico di San Jeronimo, sotto lo sguardo misericordioso di una Madonna cupa, papà Saturnino e mamma Benedicta hanno allestito un altarino. Nella foto c’è lei in una delle tante soste nei porti, con una maglia blu che le scopre una spalla, short azzurri e un gran cappello di paglia. «La più bella di tutte» c’è scritto sopra. A destra fiori freschi. Davanti tre moccoli votivi, due bianchi e uno giallo. Tutti i familiari concordano su un punto: era una ragazza allegra, le piaceva viaggiare e scoprire cose nuove. Il lavoro sulla nave, da questo punto di vista, era l’ideale.
Sono arrivato qui dopo aver contattato via Facebook Helar, il fratello di due anni più grande. Fa il poliziotto. Per il suo mestiere ha consuetudine con la morte, e un gran rispetto per il coraggio. Ogni volta che nomina Erika antepone «eroina». Racconta della sua laurea in turismo all’Università locale. Dei sei mesi a servizio in un motel cittadino. Del colloquio del 2008 con la Crc, un’agenzia che recluta forza lavoro per le multinazionali. «Uno stipendio medio da noi è di 750 soles, circa 250 euro. Lei voleva aprire un’agenzia di viaggi. Per fare la cameriera sulla Costa la pagavano mille dollari che, con le mance, arrivavano a 1200 e oltre. Qualche anno, era il progetto, e poi avrebbe potuto mettersi in proprio» ricorda, l’occhio umido, una mano a stringere quella della sposa ventenne. Soldi buoni, ma non regalati. Otto-novo mesi in mare, per un minimo di nove ore al giorno, quasi sempre sforato con gli straordinari. In un huis clos marittimo che diventa presto asfissiante.
Helar ha convocato la famiglia nella casa dei genitori dove Erika viveva quando tornava per i tre mesi di riposo. Bisogna attraversare un passaggio a livello incustodito. Polvere, tanta polvere. In principio erano baracche, poi edificate. Luz Media, la sorella trentenne, ricorda lo choc dell’impatto: «Dopo un paio di settimane dal primo imbarco, alla fine del 2009, telefonò a casa dicendo che non ce la faceva. Le mancava la terra. Poi le passò. Era stanca, ma felice». Pare che sia cosi per tutti. Un po’ come il soroche, il mal di montagna che dà nausea e palpitazioni a chi si avventura sin qui. Interviene il papà, cartografo comunale in pensione: «Io ero sempre l’ultimo ad andar via dal lavoro. I miei figli hanno preso da me. Non si arrendono». Fosse per lui il «codardo Schettino» starebbe in prigione a oltranza.
Ognuno ha un ricordo da condividere. Jimi, il minore, quello di una cena allegra quando l’avevano accompagnata a prendere l’aereo per andare a imbarcarsi a Savona. Manuel, il primogenito avvocato, dello straziante riconoscimento in obitorio dopo che il corpo era stato diciassette giorni in acqua. La mamma di quando, il giorno prima della sciagura, aveva ricevuto una sua telefonata: «Comprati un bel vestito, qualcosa che ti faccia contenta. Quando torno ti restituisco i soldi». Adesso Erika è diventata l’immagine di sfondo del suo cellulare. Manca giusto Madeline, che vive in Spagna, e che un paio di volte era andata a trovarla durante gli scali europei. Il padre ha dato incarico a legali italiani di seguire il processo alla Costa per un eventuale risarcimento.
Roxana Buenaño Sipion, madre di un bimbo di sei anni, era la miglior amica di Erika nel microcosmo che la nave finisce per diventare. Dormivano nella stessa cabina. Si confidavano tutto, comprese le occasionali cotte che i passeggeri prendevano per loro. «Erika era forte e sempre di buon umore. Mi aveva sostenuto molto quando mio padre era stato male» mi racconta nello Starbucks di Miraflores, il quartiere della capitale in cui ci vediamo con altri suoi due ex colleghi. Sulle imbarcazioni da crociera vige un sistema castale che vede al vertice gli ufficiali. Poi lo staff, tipo gli addetti del casinò, i fotografi e i receptionist come Angel Paredes, un ventinovenne che parla un italiano impeccabile. E infine il crew, l’equipaggio meno qualificato tra cui il personale di cucina, i mozzi e le cocktail waitress come Erika, Roxana e Patricia Quinoñez, che ora beve un cappuccino lungo come un frullato. Ogni categoria aveva i propri spazi. Un bar, una palestra, un pezzo di ponte dove la ciurma poteva prendere il sole. Il gioco, per così dire, consisteva nel non mischiarsi: né tra dipendenti di diverso rango, né tantomeno con i passeggeri. Nel turno di notte si lavorava dalle 12 alle 16, poi tre ore di pausa e ancora dalle 19 a mezzanotte. A quel punto i più resistenti potevano trovarsi nei rispettivi locali per una bevuta, due chiacchiere o un karaoke.
Durante il secondo viaggio, sulle rotte del sudest asiatico, Erika aveva conosciuto Wilmer, un collega dell’Honduras. Si erano fatti compagnia per un po’, ma una volta sbarcati la storia non aveva retto. L’amore, notoriamente fluido per tutti, lo è in particolare per i marinai di ogni ordine e grado. «Ci sono persone con doppie vite clamorose» racconta Angel, «compresi padri di famiglia che sotto coperta mettono la parrucca e si scatenano».
Non era il caso di Erika, sgobbona all’inverosimile. A sette euro per mezz’ora di conversazione e addirittura dieci per un’ora su internet i contatti con i familiari erano centellinati. Per come la vedeva lei, era lì per accumulare: con vitto e alloggio incluso, quasi tutto lo stipendio diventava risparmio. «Le piaceva scendere a terra, durante gli attracchi, e fare un sacco di foto» dice Patricia mostrandone qualcuna sul computer portatile. Con le stagioni cambiavano i vestiti, non l’espressione: Erika era costantemente sorridente. Il 12 Roxana l’aveva fotografata davanti al Bacio del mare, una statua nel centro di Civitavecchia. La notte del 13, alla fine del turno, si erano date appuntamento per una festa: «Andiamo in uniforme, sarà troppo tardi per cambiarci».
Le cronache delle ultime ore sono concitate e spesso contraddittorie. Ciò che si può dire è che verso le 21.45 del 13 gennaio 2011 la Costa Concordia sbatte contro uno scoglio che le apre uno squarcio di cinquanta metri sul fianco sinistro. «Le esercitazioni che avevamo fatto prevedevano che entro mezz’ora dall’allarme la barca avrebbe dovuto essere evacuata» dice Angel. L’allarme però arriva dopo un’ora e mezzo, per interposta persona, perché il capitano è già «scivolato» su una scialuppa. Ogni membro dell’equipaggio deve farsi trovare al proprio punto di raccolta. Roxana vede passare Erika che corre a recuperare il salvagente in cabina. I membri dell’equipaggio sono i bersagli delle richieste sempre più angosciose dei passeggeri. Forniscono la segnaletica dell’emergenza. La nave è ormai così inclinata che la gente scivola e si ferisce. L’ordine di priorità – vecchi, donne e bambini – regge pochissimo. Tutti vogliono superare tutti. Grida. Spintoni. Mors tua vita mea. Uno, gettandosi sul gommone, batte la faccia e spilla sangue dappertutto. Roxana è paralizzata dallo choc. Angel si è rotto un braccio e viene sollevato di peso da un amico che riesce a buttarlo su una scialuppa. Finalmente arriva anche il turno di Erika di mettersi in salvo. La zattera che le tocca può contenere 35 persone, ma ne salgono di più. Con lei i due connazionali, tra le decine che lavoravano a bordo, Armando Vera e Yazmin Torres.
A distanza di un anno Armando ha ancora problemi a prender sonno e soffre d’ansia anche solo a stare sulla spiaggia: «Io mi ero buttato e le gridavo di fare lo stesso, ma il panico la bloccava. E la Costa, sempre più inclinata dalla nostra parte, incombeva sul gommone come una montagna d’acciaio. Vari giornali hanno raccontato di testimoni che l’avrebbero vista offrire il suo salvagente a chi ne aveva bisogno. Non lo so, forse, ma farebbe una differenza? So per certo che era una bellissima persona». De André ha cantato l’incommensurabilità, per chi l’amava o ne aspettava il ritorno dal fronte, tra un soldato vivo e un eroe morto. La sua famiglia la pensa allo stesso modo.