Ettore Boffano, il Venerdì 11/1/2013, 11 gennaio 2013
E DUE GIORNI INTERI TUTTA TORINO SFILÒ PER IL SUO RE
Fu quella coda interminabile, silenziosa e ordinata come di un esercito in marcia, a stupire innanzitutto Torino e poi l’Italia e il mondo. Lungo le rampe elicoidali del Lingotto, disegnate nel 1915 da Giacomo Matté-Trucco e che avevano affascinato persino il genio di Le Corbusier. Ora, e per due intere giornate di quella fine gennaio del 2003, erano invase da una folla muta e inaspettata, venuta a dire addio al concittadino più noto, più ricco e più potente: colui che, nell’Italia repubblicana, si era impadronito del posto, tra la Mole, le montagne e il Po, della dinastia perduta nel 1865 assieme al titolo di capitale. Ma anche l’avversario di classe («Agnelli, Pirelli, padroni gemelli» era stato uno degli slogan più famosi dell’autunno caldo), il miliardario sfrontato della Juventus (Gioanin Lamiera lo irridevano i tifosi granata e, quasi sempre, anche comunisti), il dandy annoiato e libertino che fino in fondo non aveva mai convinto la vecchia borghesia subalpina molto riservata e arcigna che aveva sostituito l’aristocrazia dei Savoia. Eppure, adesso, erano tutti lì, gente elegante e vecchi operai, giovani e anziani, avversari di fede politica o sportiva, loden e giubbotti di fintapelle comprati per pochi soldi nelle televendite delle tv private, facce di una ormai minoranza piemontese accanto a quelle della prima, della seconda e della terza generazione della oceanica immigrazione dal Sud. Saliti a salutare il viceré di Torino, come Gianni Agnelli era stato ribattezzato nel 1969 da Angiolo Silvio Ori nella prima biografia non autorizzata del Signor Fiat e del suo impero. E nella sala bianca della Pinacoteca, sul tetto-pista dove un tempo si collaudavano le auto, a stringere la mano a ciascuno c’erano – forse più stupefatti di tutti – gli uomini, le donne e i ragazzi della Famiglia. Quasi come se la morte del suo personaggio più importante (e anche dell’azionista principe, tutelato da misteriosi marchingegni giuridici costruiti in Italia e a Vaduz) avesse dissolto all’improvviso la distanza di rango a lungo difesa e celata in quella Villa Frescot sulla collina oltre il fiume, dove l’Avvocato era morto la notte del 24 gennaio. A rileggere le cronache di dieci anni fa e il viaggio-reportage di Giuseppe D’Avanzo nella Torino orfana dell’Avvocato, questa surreale ricomposizione delle contraddizioni torinesi (e non solo) del secolo breve riemerge soprattutto nelle parole intelligenti di un operaio di Mirafiori in pensione, il meridionale Carmine, uno dei tanti che negli anni del boom avevano incontrato Torino, la Fiat e l’amore-odio per Agnelli: «Non so se questa è una santificazione, lo so che cos’era per me l’Avvocato. La nostra qui è stata una vita di merda. Lavoro, lavoro, lavoro e null’altro se non la speranza di un futuro più lieve per i nostri figli, ma qui a Torino noi siamo diventati un’altra cosa, ci siamo sentiti parte di un tutto che l’Avvocato portava in giro per il mondo con la sua bella faccia e la sua eleganza. Questo mi piaceva, mi è sempre piaciuto e ha reso più tollerabile la mia vita difficile». Il resto venne poi la domenica mattina, nei funerali solenni nel Duomo. Un alto e basso dell’Italia di allora. I rappresentanti dei vari rami della Famiglia che fendevano la gente radunata, com’era accaduto, prima, solo per le esequie del Grande Torino e delle vittime del Cinema Statuto, l’Italia delle istituzioni, della politica e dell’industria e poi ancora la stessa folla del Lingotto. Insieme all’arrivo kitsch del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, giunto a bordo di una Mercedes ai funerali del simbolo dell’auto italiana e accolto da una lunga salva di fischi; quel misterioso rimanere in piedi durante tutta la cerimonia di Cesare Romiti («Una cosa tra me e l’Avvocato»), lo squillo del trombettiere del Pinerolo Cavalleria che intona Il Silenzio, e l’omelia dell’arcivescovo Severino Poletto che prima dimentica di citare il Cavaliere tra le autorità presenti attorno al presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e poi chiude invocando un nuovo futuro «per la Fiat a Torino». Dieci anni dopo, nella città che è sempre meno legata alla Famiglia e con la Fiat degli Elkann e di Marchionne che adesso è molto americana, la continuità è soprattutto questa: la Chiesa è rimasta la voce più autorevole accanto ai lavoratori e alla Fiom. Come se un patto si fosse stretto in quel funerale del 2003.