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 2013  gennaio 15 Martedì calendario

COSÌ MI TRASFORMO NELLE VOCI DEGLI ALTRI


In tv è invisibile, ma riconoscibile. È:
the voice.
La voce di scrittori, regine, cantanti, imprenditori. Da Susan Sontag a Rania di Giordania, da Madonna a Bill Gates. Trova sempre le parole per dirlo: in diretta.
Lost in translation
quasi mai, non se lo può permettere. Paolo Maria Noseda, 55 anni, traduce da più di trenta, conosce cinque lingue, è l’interprete di “Che tempo che fa” e l’autore del libro
La voce degli altri(
Sperling & Kupfer). Mestiere affascinante e difficile il suo: devi prestarti, capire se il silenzio è una sosta o un capolinea, anticipare pensieri, decifrare umori.
«Quando Madonna era ospite di Versace, sul lago di Como, la bambinaia della figlia Lourdes, si ammalò. Lo staff della cantante mi sfinì con regole assurde: mai guardare Madonna negli occhi. Non ci feci caso e proposi di badare io alla neonata, dare un biberon non è la fine del mondo. Madonna poté andare in concerto e mi ringraziò tantissimo.
Con Naomi Campbell andò diversamente: stremata dalle domande, si sdraiò sul tavolo e si dichiarò stanca, feci lo stesso anch’io, e le dissi di non preoccuparsi, stavo dalla sua parte. Mi ritrovai sul giornale, fotografato come la sua nuova fiamma».
I grandi esigono traduzioni perfette.
«Si e hanno ragione. Scrittori, architetti, designer: puntano tutto sulla forza della parola e per principio non si fidano. Sono esigenti, sanno che una cattiva traduzione
è dannosa. Susan Sontag al nostro primo incontro in albergo si fece assistere da Paolo Dilonardo, suo traduttore, ma non me lo disse. Voleva che controllasse il mio operato, avuto il suo assenso siamo diventati amici. Patti Smith mi corresse: scusi, non voglio sembrarle arrogante, ma io voglio essere presentata come poeta e non come musicista. Con P. D. James la simpatia scattò subito: capisci che l’essersi presa cura di un marito invalido le ha dato molta responsabilità, ma anche gioia di vivere, e di scappare alle dieci di sera a mangiare polenta e cotechino. Un’altra cosa si afferra subito: se l’ospite viene da Cambridge o da Oxford. È una questione di linguaggio, di
“I suppose”,
di apertura al dubbio».
Mai un imbarazzo?
«Certo che sì. A Philippe Petit, che per 45 minuti ha passeggiato su un filo a cinquecento metri d’altezza tra le Torri Gemelle di New York, ho detto: ci vuole molta concentrazione in studio. Era una raccomandazione. E lui: lei davvero crede io abbia problemi di concentrazione? Sarei sprofondato in una botola, terra inghiottimi. Volevo solo sincerarmi che non restasse male perché spesso l’intervistato è sorpreso, sente uscire dagli altoparlanti una voce che non è la sua in una lingua che non conosce. E poi c’è la volta in cui a Jonathan Franzen, distratto e molto guardingo, non andava proprio di dialogare con i lettori. E va bene che anche il traduttore è un funambolo, ma c’è un limite alle acrobazie. Noam Chomsky invece è uno spartito musicale, un preludio divino».
Lei mangia prima di tradurre?
«Mai. E nemmeno bevo: un interprete
brillo non serve a nessuno e nemmeno un consulente disattento. Corro, nuoto, faccio molto sport. Il nostro è un lavoro in diretta, si sta spesso rannicchiati su uno strapuntino, divorati dalla tensione. Come mi disse Tina Brown: grazie per la presente assenza. La gente pensa: come, per un’intervista di due minuti? Ma io mi preparo giorni, mi documento, leggo il labiale, a mio modo sono un artigiano. Una volta salvai un imprenditore, stava firmando un contratto senza accorgersi che c’era un
binding,
una clausola da 50 milioni di dollari».
Con Miles Davis non è andata così.
«Puro turpiloquio. Viaggiavamo sul Concorde da Londra a New York. Era di pessimo umore, reduce da una serata burrascosa, iniziò a maledire tutti, divinità comprese. Il passeggero della fila dietro mi invitò a calmarlo. Era l’arcivescovo di Canterbury. Capita anche di tradurre su un pullman lanciato a 160 chilometri orari per una prova di frenata o in una sala parto di New York o all’hotel Tamanaca di Caracas trasformato in un’esibizione di purosangue da un miliardario locale».
Traduzioni dolorose?
«Una figlia che cercava di mettersi in contatto con il padre emigrato in Germania. Ma il signore non voleva saperne. Confesso: ho vacillato. Mi sono dispiaciuto di essere la voce degli altri e ho temuto di perdere la mia».
Consigli ai giovani che vogliono fare questo lavoro?
«Viaggiare, vivere, sbagliare. Prendere casa all’estero, io sono partito a 16 anni con una borsa di studio, pieno di curiosità. Umiltà: stare sempre un passo indietro, dare del lei, consigliare, non imporre. Bisogna saper vedere e ascoltare: certezze, paure, esitazioni».
Invito ai politici?
«Siate brevi. Imparate da Obama. In quattro frasi si può dire tutto. Quando nel discorso post-rielezione disse che non avrebbe preso un altro cane. Era un messaggio: Bo, il first dog, glielo aveva regalato nel 2009 il senatore Ted Kennedy. Obama ci teneva a sottolineare che questa volta ce l’aveva fatta senza grandi appoggi e investiture ».
Cosa non può mancare nelle memorie di un interprete?
«Il consiglio che mi diede la regina Elisabetta: “You know Paolo, it’s amazing what training can do to you”. Bisogna allenarsi, sempre».