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 2013  gennaio 15 Martedì calendario

UN UOMO SOLO AL COMANDO


Fate un semplice esperimento. Cercate su Google l’immagine di qualunque presidente della storia americana recente, Johnson, Nixon, i Bush padre e figlio, Clinton, Obama, al momento della vittoria elettorale.

E poi affiancatela sul monitor con l’immagine del leader quattro anni più tardi. Tutti mostrano la fatica della Casa Bianca, il peso di quella che lo storico John Keegan chiamava «la maschera del comando». Johnson, una volta lasciata Washington, si lascia crescere i capelli come i ragazzi che, chiedendo pace in Vietnam, l’avevano cacciato. Nixon spaventa gli amici per la cattiva cera e, la notte prima delle dimissioni, si getta a pregare in ginocchio, con accanto il solo Henry Kissinger. Le rughe sul volto di G. W. Bush erano alla fine più intricate di una mappa militare dell’Iraq. L’affascinante Clinton, di cui l’avvocato Vernon Jordan diceva «Entra a un party e tutti gli occhi femminili sono su di lui», incanutisce dopo lo scandalo Lewinsky e il cuore lo porta sotto i ferri del chirurgo.

Ora Barack Obama ammette di «sentirsi solo» nella capitale, le figlie crescono e «non hanno più tempo per me», malgrado si senta ancora «un tipo alla mano, mi piacciono le feste». Anche Obama mostra i segni dello stress, «fatigue» lo chiamano gli americani. Anche lui ora sa cosa intendesse il presidente Truman, un uomo della strada venuto dal Midwest non un cerebrale ex docente universitario come Obama, quando osservò: «Se volete un amico a Washington, compratevi un cane».

Si intitola «Il lavoro più solitario al mondo» una classica fotografia scattata dal grande George Tames il 2 febbraio del 1961. Mostra il presidente John Kennedy, che ha giurato da pochi giorni con il discorso «Non chiedetevi cosa il paese può fare per voi, chiedetevi cosa voi potete fare per il paese», di spalle, curvo verso le vetrate della Casa Bianca, piegato dalla tensione, in silenzio: solo. Sembra chiedersi ora cosa «lui» possa fare per l’America. Come solo si chinava sul tavolo Johnson, ascoltando l’elenco dei caduti in Vietnam.

Il discorso di Obama, ieri, è stato solido. Il Presidente ha avvertito i repubblicani che non pagherà «riscatti» sul bilancio, non conierà monete per sostenere la spesa, avvertendo il Congresso: «Non spendete quanto vi pare, per poi impedire a me di saldare il conto». Anche sul porto d’armi, dopo la strage di Newtown, il Presidente è stato severo, lavora con il vice Biden a una proposta di legge. E se volete capire come mai, così apertamente, il freddo Obama confessi la «solitudine del comando», tornate alle sue lacrime di quei giorni. Per la prima volta nella storia un Presidente ha pianto in diretta. Commozione, certo, ma anche rabbia e, soprattutto, frustrazione. La consapevolezza che, malgrado abbia il lavoro di «uomo più importante al mondo», abbia firmato la mitica riforma sanitaria, condannato a morte l’arcinemico bin Laden e sia stato rieletto contro i pronostici, ci sono aree grigie dove la sua energia e intelligenza si fermano.

È un Obama nuovo quello che vediamo da novembre, capace di sentimenti e di forza, in lacrime ma astuto nel battere l’opposizione sull’«abisso fiscale». Deciso a chiudere con la follia Usa di indebitarsi senza freni, ma non in nome di un rigore che faccia male a lavoratori e ceto medio. Il prezzo che paga è la solitudine. Quando non basta più la famiglia, la First Lady Michelle che gli è accanto mentre, dopo Monica, per un po’ perfino Hillary e la figlia Chelsea lasciarono da solo, in punizione, Bill Clinton.

La condanna del Fato d’America, il massimo del potere è il massimo della solitudine, come Spielberg illustra da maestro nel capolavoro «Lincoln». Solo un presidente ho visto sottrarsi a questo destino, Ronald Reagan, entrato sorridendo in una Washington lasciata, otto anni dopo, sempre sorridendo. Forse la vedeva come provvisorio set del «Cinema Politica» e al leader russo Gorbaciov che gli chiedeva solerte «Cosa devo vedere a Washington?» poteva rispondere raggiante «La California».
Twitter @riotta