Daniele Martini, il Fatto Quotidiano 13/1/2013, 13 gennaio 2013
DAL WALFARE AL WARFARE COSÌ LO STATO SI INDEBITA
[L’acquisto di armamenti avviene in sordina. Si sfoglia un depliant e si sceglie il modello di aereo o elicottero, siluro o sistema di puntamento. Tutto è presentato con il codice rosso dell’emergenza, il voto del parlamento è solo consultivo] –
Dal welfare al warfare. In sordina, il più possibile lontano dai riflettori, ma con un’accelerazione recente, l’Italia da paese che impegna le sue forze per la protezione sociale e il benessere (welfare), sta diventando uno Stato che si indebita per le armi (warfare). Lo smottamento avviene a colpi di sterzate decisioniste, con un sistema che tra il serio e il faceto nell’ambiente è chiamato il “depliant”, come quegli opuscoli consegnati nelle agenzie di viaggio per invogliare i clienti a prenotare le vacanze o i volantoni dei supermercati con le offerte di pelati e braciole. Con il depliant delle armi, l’Italia ha comprato costosissimi sistemi d’arma, aerei, elicotteri, sottomarini, la bellezza di 71 programmi di armamento, a colpi di 3 miliardi e mezzo di euro all’anno, a volte anche 4, senza contare gli investimenti di difficile quantificazione inseriti nel bilancio del ministero dello Sviluppo economico.
SOLDATO DEL FUTURO, MA QUANTO MI COSTI?
L’elenco delle spese è impressionante. In prima fila ci sono i soliti F-35, i cacciabombardieri della Lockheed Martin, e la cosiddetta Forza Nec, cioè il soldato robotizzato del futuro. Per entrambi l’Italia ha già preso impegni e speso quattrini, anche se non c’è ancora una decisione definitiva. Entrambi implicano un impegno finanziario stratosferico, circa 13 miliardi di euro ciascuno di spese vive, cioè per l’acquisto puro e semplice, senza contare gli annessi e connessi che sono altrettanto impegnativi, dalla manutenzione alla sostituzione di componenti. Per gli F-35, per esempio, i tecnici calcolano che la fase post acquisto sia addirittura più costosa dell’acquisto stesso, nell’ordine di due volte e forse anche tre. In pratica con gli F-35 nei prossimi 20 anni l’Italia dovrebbe mettere sul piatto una cifra che volendo stare bassi verosimilmente oscilla tra i 25 e i 40 miliardi di euro. Gli Stati maggiori sostengono, però, che una quota di queste spese avrebbe un ritorno positivo sull’industria e il lavoro italiani, ma è vero solo in minima parte. La Rivista Italiana Difesa, molto vicina agli ambienti militari, tempo fa arrivò addirittura ad annunciare il raddoppio dello stabilimento Faco di Cameri dell’Alenia (Finmeccanica) sostenendo che sarebbe stata assemblata lì parte dei velivoli destinati alle forze armate americane. Ma non è così e la stessa Lockheed Martin interrogata in proposito ha precisato ufficialmente che “tutti gli F-35 per gli Stati Uniti sono programmati per essere fabbricati a Fort Worth, Texas”. Punto. Con Forza Nec ci sono i prodromi perché si verifichi qualcosa di simile. Le pressioni della “lobby del fante” perché il programma proceda sono molto forti, anche nel rispetto di una specie di manuale Cencelli delle spese militari: un tot ad Aeronautica, un tot alla Marina, un tot all’Esercito e ai programmi Interforze. L’Esercito, ovviamente, non vuol restare indietro e insegue un equilibrio per impedire che Marina ed Aeronautica facciano la parte del leone, necessitando entrambe di sistemi sofisticati e tecnologicamente avanzati e quindi più costosi. Aerei ed elicotteri, in particolare, costano un occhio della testa. Per esempio gli elicotteri Nh 90 prodotti in cooperazione con Francia, Germania e Olanda comportano una spesa complessiva fino al 2018 di quasi 4 miliardi di euro, gli elicotteri dell’Esercito Etm 1 miliardo e gli Eh 101 un altro miliardo ancora. Gli aerei da combattimento Eurofighter 2000, costruiti insieme a Germania, Inghilterra e Spagna, costano 18 miliardi fino al 2018, l’ammodernamento fino al 2015 dei Tornado 1,5 miliardi, 4 Boeing 767 rifornitori un altro miliardo.
Per Forza Nec il soldato del futuro non c’è un punto fermo, ma si va avanti lo stesso, forse per precostituire le condizioni perché anche volendo non si possa tornare indietro. Sono stati impegnati oltre 600 milioni di euro ed è stato firmato un contratto del valore di 238 milioni con Selex sistemi integrati (ancora Finmeccanica) a cui sono interessate anche altre aziende italiane: Galileo, Elsag, Oto Melara, Agusta Westland, Mbda Italia, Iveco, Engineering, Impresa soldato futuro. Il criterio del fatto compiuto viene invocato anche per i costosissimi sottomarini U 212 Todaro (Fincantieri più il consorzio tedesco Arge). Due sono già in esercizio e sono stati pagati 1 miliardo di euro, uno è in costruzione e per il quarto che non è stato neanche abbozzato, dalla Difesa si affrettano a sottolineare che rimangono da pagare “solo” 300 milioni, come dire che non si può fare marcia indietro. Nel frattempo sono stati stanziati 90 milioni per armare quei sottomarini con “siluri pesanti”. Questa estate Il Fatto si è imbattuto per caso in un altro gigantesco affare di compravendita di armi comunicato ufficialmente con un ermetico testo di poche righe.
DUE “FERRARI” DEI CIELI GULFSTREAM 5 COMPRATI IN ISRAELE
Per sostituire un aereo pattugliatore in esercizio nella base di Pratica di Mare e preso in affitto, la Difesa sta spendendo più di mezzo miliardo di euro per l’acquisto da Israele di due Gulfstream 5, aerei americani considerati come Ferrari dei cieli. L’operazione prevede che Alenia-Aermacchi (sempre Finmeccanica) fornisca a Israele 30 jet M 346 per l’addestramento dei piloti israeliani. Israele, però, venderà all’Italia un satellite spia Ofek che costa oltre 800 milioni di euro. La cosa davvero sorprendente è che tutto questo armamentario sia stato acquistato usando il depliant militare, cioè una nota generica con qualche foto, qualche cifra, qualche cenno alle eventuali ricadute produttive e nessun riferimento al ruolo delle banche, spesso invece decisivo per il prezzo finale, con tassi di finanziamento salati, spesso sopra il 10 per cento. Il tutto presentato sempre con il codice rosso dell’urgenza e ammannito a opinione pubblica e parlamentari quasi con degnazione, come non si trattasse di roba su cui ragionare a fondo. In pratica il depliant lascia la stessa scelta concessa nella prima metà del Novecento da Ford agli americani: “I clienti possono prenotare l’auto del colore preferito, purché sia nero”.
IL PARLAMeNTO DICE NO ALL’ACQUISTO? SI COPRA LO STESSO
Il parlamento italiano con le armi può pronunciarsi liberamente, a patto che dica sì, se dice no, l’aereo o il sottomarino si compra lo stesso, perché il voto ha valore solo consultivo. È sorprendente che le spese per la Difesa siano stabilite con questi criteri abbastanza disinvolti. Perché se è vero che qualsiasi paese non può fare a meno di spendere per difendersi, così come del resto è previsto anche dalla Costituzione italiana, è anche vero che ovunque quelle spese vengono passate ai raggi X. Qui, invece, sembra una prerogativa degli stati maggiori tutt’al più d’intesa con il ministro di turno. Se poi il ministro è un militare, come l’ex capo di Stato maggiore della Difesa Giampaolo Di Paola, cresce il rischio di una autorefenzialità in divisa. Forse in futuro le cose potrebbero cambiare grazie al cosiddetto lodo Scanu (da Giampiero Scanu, deputato Pd), un articolo della riforma della Difesa che introduce l’obbligo da parte degli stati maggiori e del ministero di presentare una documentazione un po’ più seria concedendo al Parlamento un voto vincolante.