Stefano Feltri, il Fatto Quotidiano 13/1/2013, 13 gennaio 2013
“MCDONALD’S: PER ASSUMERE L’ART. 18 NON È UN OSTACOLO”
Succede solo da McDonald’s, diceva un jingle pubblicitario. In effetti non ci sono altri esempi di un’azienda che in Italia annuncia di assumere 3 mila persone in tre anni (trasformando la scelta industriale in un’efficace campagna pubblicitaria, con spot diretto da Gabriele Salvatores). La Cgil obietta che non sono posti a tempo pieno e indeterminato, ma comunque meglio di quanto fanno altre multinazionali tipo Fiat che sembrano considerare impossibile lavorare in Italia. Come l’auto anche la ristorazione veloce è ad alta intensità di lavoro, ma Roberto Masi, amministratore delegato di McDonald’s Italia dal 2008, dice al Fatto: “Per noi l’articolo 18 non è mai stato un problema, è altra la flessibilità che ci serve”.
Roberto Masi, partiamo dalla polemica con la Cgil: state davvero creando 3 mila posti di lavoro?
La polemica ci ha sorpreso. Ho parlato con rappresentanti della Cgil: dicono che il problema è il precariato. Ma stiamo parlando di part time. Ne facciamo molto uso, per quasi il 70 per cento dei nostri dipendenti. Non pensavamo che fosse da criminalizzare.
Un part time non è esattamente il miglior posto disponibile...
Sembra che la Cgil soffra il part time perché pensa che non permetta a un capofamiglia di sbarcare il lunario. Su questo, purtroppo, non posso che essere d’accordo. Ma ci sono altre categorie a cui è utile, come studenti o mamme che vogliono tempo per la famiglia.
McDonald’s sta lavorando molto sull’immagine, ma storicamente siete legati all’idea del cibo spazzatura e del lavoro poco esaltante di friggere patatine.
Il miglior giudice è il cliente. Abbiamo indagini frequenti in cui chiediamo loro cosa pensano. Ci sono tanti pregiudizi. Non solo su di noi come datori di lavoro, ma anche sul cibo che fa ingrassare. Abbiamo anche diversificato i menu, offrendo molti prodotti italiani oltre agli hamburger. Nella percezione stiamo migliorando molto, ma partivamo da valori talmente bassi che c’è tanto da lavorare.
Perché investite in Italia, un Paese che stando ai dati economici – e a Sergio Marchionne – sembra senza speranze?
Nel nostro settore, la ristorazione veloce, ci sono spazi di crescita: abbiamo solo il 2 per cento di quota di mercato e non ci sono altre grandi catene di ristorazione in Italia, siamo praticamente gli unici a fare hamburger. Abbiamo anche cambiato strategia, rinnovando i ristoranti e offriamo menu più ampi.
Lei ha lavorato anche nella grande distribuzione. Che pensa del crollo dei consumi nel 2012, il più grave di sempre?
È un dato preoccupante. Non nascondo che la campagna sulle 3000 assunzioni nasce da questo: stavamo registrando nella nostra clientela italiana il deteriorarsi della propensione al consumo. Il dibattito pubblico è solo su spread, precari, licenziamenti, cassa integrazione. Ci siamo detti che forse c’era una correlazione tra questo e le scelte di consumo.
E quindi?
Sono andato al ministero dello Sviluppo e ho detto: ‘Signori, non si può parlare solo di tavoli di crisi’. Poi il governo sappiamo che fine ha fatto e abbiamo dovuto fare da soli gli spot sulle assunzioni. Ma speravamo di muoverci in sintonia con altri, per dare voce alle aziende che ancora ci credono.
È ancora vero che il fast food è anticiclico, cioè che si mangiano panini quando non ci si può permettere il ristorante?
All’inizio della crisi il consumatore non cambia stili di vita: chi è abituato ad andare fuori a cena continua, ma scala, se faceva un pranzo a 30 euro scende di fascia e viene da McDonald’s. Ma se la crisi dura a lungo e morde, come questa, cominciano a diradarsi anche da noi. Adesso tendono a cucinare in casa.
Crisi a parte, quali ostacoli ci sono a investire qui in Italia?
Per noi la barriera più elevata è il cuneo fiscale sul costo del lavoro. Siamo ad alto uso di manodopera, dobbiamo fare gli hamburger e venderli, non arrivano già pronti. Tra costo, orario lordo e quanto riceve il lavoratore si può migliorare di tanto.
Il governo Monti ha sostenuto che il problema fosse l’articolo 18 sui licenziamenti, e l’ha ammorbidito. Anche per voi è così importante?
Assolutamente no. Ci serve flessibilità, ma non quella in uscita e in entrata. Abbiamo bisogno di flessibilità organizzativa. Il nostro Dna aziendale è quello di poter aprire sempre, sette giorni su sette, 365 all’anno. E questo implica una certa complessità per mettere assieme bisogni dell’azienda ed esigenze del mercato del lavoro.
Quindi la riforma del lavoro, con il rilancio dell’apprendistato, non ha rivoluzionato il contesto in cui operate.
Le riforme del governo Monti per noi non hanno cambiato niente, facevamo già molto uso di apprendistato, che è la forma prevalente per l’ingresso nella nostra azienda.
Cosa vi aspettate dal prossimo esecutivo?
Abbiamo fatto una proposta al ministero dello Sviluppo: la formazione riconosciuta. Le grandi aziende come McDonald’s investono molto su una formazione professionale che poi non può essere spesa dal dipendente sul mercato del lavoro. Il governo dovrebbe stabilire un programma e le aziende che aderiscono potrebbero poi rilasciare un titolo, che permetta al lavoratore di vantare una qualifica. Perché non tutti arrivano nel mercato del lavoro con una laurea alla Bocconi. In Francia e Inghilterra abbiamo provato e funziona.
Reazione del governo?
Ci hanno soltanto detto: ‘Altre idee?’.