Salvatore Cannavò, Thomas Mackinson, Martina Castigliani e Emiliano Liuzzi, il Fatto Quotidiano 14/1/2013, 14 gennaio 2013
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UN PARTO LUNGO DUE ANNI, ALMENO [“A volte mi sento un’ostetrica che aiuta a far nascere un figlio e osserva la felicità dei genitori”. La testimonianza di un giudice dei minori ripercorre le lunghe e complicate tappe per arrivare al via libera definitivo. I bambini abbandonati in Italia, per fortuna, non sono molti e le richieste sono otto volte le possibilità. Per le adozioni all’estero si possono spendere decine di migliaia di euro] –
Noi siamo un po’ come le ostetriche, assistiamo a un parto, portiamo i figli a dei genitori che li desiderano. È la parte più bella, persino commovente, di un lavoro che resta molto difficile”. Il giudice dei minori che ci accompagna in questo viaggio nel mondo dell’adozione, e che per ragioni deontologiche preferisce non essere citato, utilizza una metafora suggestiva che, almeno per un momento, spazza via la burocrazia. Adottare un figlio è difficile, impegnativo emotivamente, mette a confronto con la macchina statale per una funzione altrimenti naturale. Dall’altra parte c’è invece la felicità imprevista di chi non ha avuto affetti o ha conosciuto solo degrado
Le due adozioni
La legge che regola le adozioni, nazionali e internazionali, del 1983, è stata riformata in profondità nel 2001. Il suo fondamento è la tutela dell’infanzia. Adottare è difficile perché, fortunatamente, i bambini dichiarati adottabili in Italia sono pochi, non pochissimi ma certamente pochi. Nel 2010, ultimo anno con cifre ufficiali, le dichiarazioni sono state 1.177, le richieste circa 10 volte superiori (otto volte la stima del 2012). Diverso è il caso di quelle internazionali - i dati della Commissione adozioni sono del 7 gennaio: al 31 dicembre 2012 risultano adottati 3.106 minori da 2.469 coppie.
Una coppia che voglia procedere a un’adozione deve avere un requisito essenziale: essere sposata. La legge italiana su questo punto, a differenza del resto d’Europa, è molto chiara: tre anni di matrimonio oppure di convivenza suffragata dal matrimonio.
I “single” non sono ammessi a meno che (Adozione in casi particolari) non abbiano già un rapporto pre-costituito con il bambino oppure siano titolari dell’affidamento (vedi a pagina 5 ). Altro requisito importante: un minimo di 18 anni e un massimo di 45 anni di differenza tra genitori e minori. In ogni caso, la coppia presenta la “domanda di disponibilità all’adozione internazionale” presso il Tribunale dei minori il quale sarà incaricato di verificare le motivazioni e le capacità, materiali, affettive, psicologiche, dei possibili genitori.
La conoscenza del piccolo
La verifica iniziale viene affidata ai servizi sociali, si basa su colloqui con assistenti e con psicologi che durano, salve proroghe, 120 giorni. Poi tocca al tribunale. Lo scopo principale è accertare se la nuova famiglia sia in grado di assicurare al bambino “il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno”. Si verificano anche le motivazioni e le aspettative della coppia, che non cerchi “un figlio sognato” ma sia in grado di accogliere un figlio reale. “Nel 90 per cento dei casi - spiega il nostro giudice - le motivazioni delle famiglie sono sane, muovono dall’impossibilità di procreare ma nella consapevolezza che si sta mettendo in gioco una vita umana”. La verifica è comunque accurata e il tempo medio è di circa un anno. Esistono proposte di legge per abbreviare questo percorso ma i giudici, e molti operatori del settore, lo ritengono un periodo adeguato.
Sarà quindi il Tribunale dei minori a trasmettere il decreto di idoneità alla Commissione per le adozioni internazionali e a notificarlo ai richiedenti, i quali hanno un anno di tempo per incaricare uno degli Enti autorizzati. Sono questi ad assistere i coniugi nel delicato processo di ricerca del Paese e della struttura e poi a metterli in relazione con il bambino.
La scelta dei paesi esteri è cambiata nel corso del tempo. Brasile o India, ad esempio, sono oggi due potenze economiche in ascesa e le adozioni da questi paesi sono diminuite. Nel 2012 è stata la Federazione russa a fare la parte del leone con il 24% delle autorizzazioni concesse, a seguire la Colombia, poi altri paesi dell’Est europeo come la Polonia. Roberto e Valeria sono due genitori che hanno adottato un bambino in Colombia. Sono stati due mesi in quel paese per costruire la giusta fiducia e “l’innamoramento” necessario, così lo definiscono. “Quei due mesi sono stati di un’intensità totale perché abbiamo costruito, sia pure velocemente, i tasselli di una relazione che poi ha avuto le sue difficoltà anche se oggi nostro figlio sta bene”.
Dopo il via libera del paese estero e il supporto dell’Ente autorizzato, la Commissione per le adozioni autorizza l’ingresso del minore in Italia e il Tribunale dei minori decreterà l’adozione disponendone la trascrizione nei registri dello stato civile.
Per un’adozione internazionale - pur essendo la fase in Tribunale gratuita - non bastano 10 mila euro tra viaggi, alloggio all’estero, spese varie e spese post-adozione. L’associazione Amici dei bambini pubblica le sue tabelle con molta precisione: 4000 euro per le spese in Italia e, per un’adozione dalla Russia, 2500 euro di traduzioni , 9000 euro per accompagnamento all’estero e mantenimento del minore, 720 euro per la fase post-adozione. Totale, 16.220 euro che scendono a 10.720 euro nel caso della Colombia.
Il magistrato-ostetrica entra in azione per le adozioni italiane. Nei casi di neonati non riconosciuti la procedura è piuttosto rapida: “La bambina di cui mi sto occupando - racconta il nostro giudice - ha tre giorni e la madre naturale non ha voluto riconoscerla”. La legge lo consente, anche per evitare aborti o abbandoni più drammatici. Si va in ospedale, si partorisce senza rilasciare le proprie generalità e poi si va via. “Ora dovrò convocare le famiglie che hanno presentato domanda in ordine cronologico: la prima è del 2008”. I tempi sono più o meno questi e, una volta che il giudice abbia accertato motivazioni e capacità dei coniugi, l’affidamento si risolve in un paio di settimane. Ci sarà però un anno di tempo, prorogabile ancora di un anno, prima di dichiarare la definitiva adozione. Diverso è il caso di abbandono dei bambini in corso di infanzia. La dichiarazione di adottabilità emessa dal giudice “costituisce una cesura netta con la famiglia di origine, uno strappo affettivo dichiarato giuridicamente che non può ammettere errori”. Con la dichiarazione del Tribunale, infatti, il bambino viene allontanato dai genitori naturali per abbandono materiale e morale da parte loro. “Un simile evento richiede che il processo di adozione debba essere svolto con estrema cura: l’adozione è un diritto del bambino prima che del genitore e come tale va trattato”.
Una volta scelta la coppia il giudice può disporre l’affidamento pre-adottivo che dura un anno.
È un processo lungo, complicato, a volte doloroso quello che regola l’adozione perché basato su un evento traumatico, un abbandono. Ma può regalare emozioni molto profonde: “Quando convoco una coppia per comunicare la decisione dell’affidamento vedo davanti a me una grande commozione che mi contagia.
E questa emozione si ripercuote nel tempo: le famiglie mi vengono a trovare per farmi vedere il bambino oppure mi mandano una sua foto, mi tengono al corrente”. Come se il giudice fosse una nonna. Oppure, l’ostetrica di una volta.
IL MINORE HA DIRITTO AD AVERE LA FAMIGLIA –
Il tempo della legge e quello della società non coincidono sempre, soprattutto se l’oggetto è un fenomeno sociale complesso e delicato come l’adozione di un minore. La pietra miliare in materia è la legge n. 184 del 1983, modificata parzialmente nel 2001. Un testo che compie trent’anni e che mostra oggi, su diversi fronti, il segno del tempo. C’è chi vuole perfezionarne l’operatività, riducendo burocrazia e tempi, e chi vuole estendere la platea dei genitori adottivi a categorie escluse come i single, le coppie non sposate e quelle omosessuali.
IL DIBATTITO è apertissimo e oggetto di infinite polemiche. Solo nell’ultima legislatura sono state presentate in Parlamento 26 proposte di legge per cambiarla. Alla fine nessuna è andata in porto, segno che il tema muove sensibilità apparentemente inconciliabili e porta con sé contrapposizioni ideologiche irriducibili. Ma non c’è solo questo. La materia è particolarmente complessa perché ogni sua modifica investe istituzioni (magistratura minorile e Servizi socio assistenziali e sanitari) e soggetti portatori di diritti diversi (il minore, i genitori biologici e quelli adottivi). E rischia di alterare un equilibrio che la giurisprudenza ha maturato nel tempo, non senza difficoltà. Su tutti, quello che è un po’ il cardine della 184, cioè la preminenza del diritto del minore . Il testo oggi in vigore ha infatti riformato profondamente l’istituto del codice civile del 1942, di derivazione romana, che assimilava l’adozione a un mezzo per dare una discendenza legale a chi non aveva figli. La riforma del 1967 (legge Canton) e la legge 184 hanno capovolto quell’ottica, spostato il centro di gravità dell’istituto adottivo, dall’interesse degli adulti a quello del bambino e al suo diritto ad avere una famiglia. D’altro canto ha affermato la supremazia della famiglia degli affetti su quella di sangue. Da allora, l’istituto dell’adozione assume la funzione di dare una famiglia e dei genitori (sposati da almeno tre anni), a bambini che per varie vicissitudini ne fossero privi . Ha inserito gli adottati a pieno titolo come figli legittimi accanto ai figli “di sangue” e ha rescisso i rapporti tra gli adottati e la loro famiglia d’origine. La legge 28 marzo 2001, n. 149 ha poi regolamentato l’istituto dell’affido come strumento per rendere pienamente operativo il diritto del minore alla famiglia, anzitutto quella d’origine e, in caso di inidoneità temporanea, a essere affidato ad altre, compresi conviventi e singoli. Questo lo stato dell’arte. Ma le nuove istanze di cittadinanza nel dettato legislativo devono confrontarsi con questo percorso e questi orientamenti. È il caso della legge in materia di riconoscimento dei figli naturali (L. 219/2012) appena approvata e giustamente salutata come una svolta nella parificazione dei diritti tra i figli nati fuori e dentro il matrimonio, compresi quelli adottivi. La nuova legge pone però una serie di problemi che investono il nodo centrale della preminenza del diritto del minore su quello dell’adulto.
TRA LE ALTRE misure, prevede infatti una delega al governo per la modifica dei presupposti necessari alla dichiarazione dello “stato di adottabilità”. L’articolo 8 della 184/1983 stabilisce che la dichiarazione si basi sull’analisi delle condizioni in cui il minore versa, in riferimento ai diversi elementi emersi in fase procedurale. La legge 219/2012 prevede sia introdotto invece il criterio della “provata irrecuperabilità delle capacità genitoriali in un tempo ragionevole”. Una sorta di “prova regina” che per giuristi, esperti e garanti per l’infanzia potrebbe rafforzare il diritto dei genitori biologici e indebolire quello dei bambini in stato d’abbandono, alimentare il contenzioso, rallentare l’iter delle adozioni, ridurre il numero dei bambini adottabili e degli affidamenti. Un collo di bottiglia a un sistema già precario nei tempi e nei numeri: in un anno i bambini adottabili sono circa un migliaio e per ciascuno si contano 10 coppie disponibili. Un rapporto che potrebbe ulteriormente allargarsi, a danno dei minori e degli adulti.
NEL 2012 UN MILIONE I BAMBINI “VENDUTI” –
Nella pratica sembrerebbe solo questione d’amore. Un bambino orfano o abbandonato e una famiglia, un padre e una madre, che vogliono adottarlo. Una questione di affetti e responsabilità che spinge coppie italiane a fare domanda per avere in adozione bambini provenienti da tutto il mondo: sono 3106 i minori di 55 paesi diversi che nel 2012 sono stati adottati da 2469 famiglie italiane.
TANTI , ma pochi in confronto agli anni precedenti con un meno 22,8% che pesa sulla bilancia. E se la pratica parla di amore, la teoria è anche burocrazia. La paura è quella di metodi poco trasparenti, soldi che vanno dove non si sa e mercati illegali. Si chiama il mercato dei bambini, per usare un termine appropriato.
Sono oltre un milione i bambini che, secondo le stime di Unicef e Save the Children, nel 2012 sono stati vittime di tratta internazionale con fine lo sfruttamento. Dati che rivelano pericoli soprattutto per chi proviene da Asia e Africa Occidentale, minori utilizzati come merce di scambio o sfruttati a livello sessuale poi nei paesi sviluppati.
E se questo rimane il fenomeno da contrastare, i buoni segnali arrivano nel campo dell’adozione internazionale dove, dalla ratificazione della convenzione de L’Aia nel 1998, le regole sono cambiate anche per l’Italia. Bambini africani, orfani asiatici abbandonati, piccole cinesi e ragazzetti colombiani. È la voglia di fare del bene a qualcuno che abita dall’altra parte del mondo.
“Con che cuore si rifiuta di dare una mano a chi ha bisogno?”, dicono i protagonisti. Soprattutto se ha gli occhi profondi di un neonato che ti guarda come la chance che è piovuta dal cielo, il treno che non ripasserà più. Di acqua sotto i ponti ne è passata tanta, dalla pratica di supermercato che i paesi sviluppati avevano verso il terzo mondo e le spedizioni in cerca di un bambino per portarlo in salvo nel mondo civilizzato. Poi il 29 maggio 1993 la Convenzione de L’Aia e un’Europa che tutela una pratica tra le più complesse e controverse del panorama giuridico. Un bambino ha diritto ad essere aiutato nella sua terra, è uno dei punti fondamentali di una legge che regolamenta l’adozione, ma che in pratica tutela il diritto alla vita nella propria patria. La ratifica in Italia arriva con la legge 476/1998: l’intento è salvaguardare i diritti dei bambini e di chi desidera adottarli, ma è anche dare garanzia per interrompere traffici oltre confine. L’autorità di riferimento è la Cai, commissione per le adozioni internazionali: la coppia deve ottenere il decreto di idoneità e in seguito fare richiesta presso alcuni enti autorizzati che li aiutano nei rapporti con gli altri paesi.
“Noi siamo attivi da diciotto anni, - dice Walter Curati, direttore di La Maloca, struttura autorizzata che lavora in Colombia e Nepal, - e quello che vediamo è una burocrazia complessa che permette però la trasparenza delle nostre azioni. Le adozioni diminuiscono per tanti motivi, dalla crisi economica che rende troppo dispendioso intraprendere il percorso, fino allo spirito di accoglienza delle famiglie che è venuto a mancare nel tempo”.
GLI ENTI autorizzati prendono in carica la gestione burocratica dei rapporti tra famiglia e i paesi esteri, ma devono anche impegnarsi ad aiutare i bambini sul territorio, con strutture per la cooperazione e lo sviluppo. A dirlo è stato lo stesso parlamento Europeo che, con la risoluzione del 19 gennaio 2011, ha auspicato cooperazione tra gli stati in materia e che la priorità sia l’aiuto di un bambino nel suo paese di origine. Ci sono molti pregiudizi sulla questione - continua Curati - bisogna tenere presente che in molti paesi mancano le strutture per accogliere i bambini e l’adozione internazionale diventa uno sbocco naturale e spesso doveroso”.