Elisabetta Rasy, Domenicale, ilSole24Ore 13/1/2013, 13 gennaio 2013
QUANDO ROMA FACEVA CULTURA
Ancora verso la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta persisteva a Roma l’abitudine di trovarsi in certe trattorie la sera, a cena, senza appuntamento. In quelle circostanze studenti o ragazzi senz’arte né parte ma con molta voglia di imparare si trovavano a contatto con personaggi prestigiosi della cultura della capitale, celebrità che però non si comportavano affatto come tali e che apparivano sinceramente, quasi infantilmente animati da passioni, convinzioni e curiosità. Ricordo così, con gli occhi della studentessa che ero allora, il melting pot della città nella versione che si era prodotta subito dopo la fine della guerra e che ancora sopravviveva: un’ansia di ricominciamento, di cambiamento e di invenzione, in tutti i campi, cinema arte letteratura, che aveva trasformato i decenni postbellici, per usare il titolo di un memoir di uno dei protagonisti di allora, il gallerista Plinio De Martiis, in «Anni originali».
Com’era stata al tempo dei grandi papi cinquecenteschi o quand’era meta obbligata del Grand Tour settecentesco e ottocentesco, la città culturale di quell’epoca aurea non era, o non era solo, dei romani – Moravia, Morante o Mario Mafai. Solo per fare qualche nome nel dopoguerra arrivano a Roma Fellini da Rimini, Antonioni da Ferrara, Visconti da Milano; poco prima erano arrivati Caproni, Sandro Penna, un po’ dopo Attilio Bertolucci; arrivano i pittori Turcato, Accardi, Consagra e un nugolo di scrittori, da Parise a La Capria passando per l’angosciato e idiosincratico Gadda che lavora al terzo programma della radio dal 1950 al ’55, anno in cui nasce il grande foglio dell’«Espresso» raccogliendo molte firme del «Mondo» di Pannunzio. Uomini che spesso non andavano d’accordo né sul piano pubblico, cioè delle idee e delle posizioni né sul piano privato, perché c’erano litigi e intrighi, qualche volta per ragioni di amore, più spesso per ragioni di rivalità o anche di premi, naturalmente il romanissimo Strega, eppure costituivano una comunità solidale e producevano un’inedita sinfonia di pensieri e opere. Fare solo qualche nome però è improprio e fuorviante: a incontrarsi e scontrarsi nella città, in quegli anni, era una vera folla di artisti e intellettuali, come è possibile constatare nell’indice delle presenze oltre che nelle pagine di un libro dedicato a questo mondo scomparso da una scrittrice anch’essa romana di adozione, Sandra Petrignani, con un titolo, Addio a Roma, cui fa eco nella quarta di copertina a modo di sottotitolo la celebre battuta di Flaiano: «Coraggio, il meglio è passato».
L’autrice colloca questa sua guida retrospettiva all’intellighenzia della capitale tra due date: il 1952 che Pier Paolo Pasolini, arrivato due anni prima a Roma dal Friuli, evoca nelle Ceneri di Gramsci ( «Improvviso il mille novecento / cinquantadue passa sull’Italia») e la morte dello scrittore il 2 novembre del ’75. Se la prima data è più suggestiva che oggettiva, perché il fermento in città comincia immediatamente dopo la liberazione del ’44, sull’ultima non si può che concordare, forse con una sottolineatura successiva, il rapimento Moro e il ritrovamento del suo cadavere nel ’78. La Roma notturna dei funerali di PPP con l’orazione disperata di Moravia e, dopo, le immagini di via Caetani concludono simbolicamente quella stagione di fervore, anche se in realtà stanno avvenendo cambiamenti sostanziali d’altro genere, l’inizio della grande onda mediatica, l’invasione pubblicitaria (che Fellini non manca di sottolineare nel suo episodio del film collettivo «Boccaccio ’70» con il grande manifesto della Ekberg sopra al coretto di «bevete più latte, il latte fa bene...»), i vecchi negozi storici del centro che cedono alle boutique del nuovo lusso, le terrazze private che prendono il posto delle trattorie familiari, la televisione che avanza e i movimenti che retrocedono. Mentre, per riprendere l’antinomia pasoliniana tra la gloria e il successo, è sempre più quest’ultimo l’obiettivo, e l’ambizione al warholiano quarto d’ora di celebrità si sostituisce all’impegno ideologico.
Ma prima, negli anni originali, qual era la vera caratteristica comune tra figure dall’indole e dalla vita tanto diversa come per esempio l’elegantissimo «conte rosso» Visconti e il povero travet Manganelli che insegna in un istituto tecnico di periferia? Scorrendo il racconto fitto di dati e date, di informazioni e aneddoti del volume di Petrignani, colpiti da tanta ricchezza di presenze e anche da tanta varietà di ingegni, ci si domanda in che cosa, in fondo, consisteva l’essenza di quei giorni, la peculiarità di quella Roma in cui la letteratura nello stesso anno 1957 sfornava «La ciociara», il «Pasticciaccio», «L’isola di Arturo», e il cinema nel 1960 «Rocco e i suoi fratelli» e «La dolce vita», mentre vi cercavano rifugio o ispirazione personaggi come Robert Rauschemberg e Truman Capote, Ingeborg Bachman e Maria Zambrano. Risponde per via contraria, spiegando perché tutto è finito, un avvilito e finale epigramma di Flaiano: «Oggi lo scrittore non vive in camere ammobiliate / né scrive sui tavolini dei caffé / né passa i mesi d’estate solo nel suo quartiere, /come Campana, Barilli, Cardarelli. /Oggi lo scrittore ha ben altri modelli. / Oggi lo scrittore se va in giro la notte / non è per placare la sua antica malinconia / ma per portare a spasso uno del gruppo Agnelli». Il che può significare in altri meno accorati termini che il genius di quel luogo in quel tempo era stato una sorta di impavida, a volte caratteriale, autenticità: se tutti, scrittori pittori eccetera, avevano la religione della propria arte, e naturalmente del proprio sacerdozio, quasi nessuno invece ostentava il mito del proprio ruolo e l’ossessione della propria immagine o del denaro – che era ancora qualcosa per vivere, possibilmente bene, e non uno status symbol dell’artista arrivato. E il succo di quel fiume di talento che scorreva per la città, tra grandi e «minori interessanti», tra difensori della tradizione (qualunque cosa essa volesse dire: sicuramente per Pasolini una cosa e per Elemire Zolla e Cristina Campo un’altra) e modernizzatori stava in questo: che ognuno voleva disperatamente essere se stesso contro tutto e tutti, e non una celebrity per tutto e tutti.