Alberto Negri, IlSole24Ore 13/1/2013, 13 gennaio 2013
AFRICA NUOVO AFGHANISTAN DEL TERRORISMO JIHADISTA
«Scramble for Africa», sgomitare per l’Africa, così gli inglesi a fine dell’800 definirono con l’usuale e cinica efficacia la competizione coloniale tra le potenze europee: adesso il campo di battaglia del continente nero è assai più affollato di vecchi e nuovi concorrenti. Si combatte in Mali, in Somalia, in Centrafrica, nella regione dei Grandi Laghi, traballano la Nigeria dell’oro nero e il Niger dell’oro grigio, l’uranio.
È questo il nevralgico fronte del Sahel, la regione intermedia che corre dall’Atlantico al Mar Rosso, tra l’oceano di sabbia del Sahara e l’Africa nera. Non può stupire troppo quindi che per una coincidenza temporale l’intervento francese in Mali sia avvenuto mentre Parigi lanciava un blitz contro gli shebab somali terminato con l’uccisione di un ostaggio. Nello “scramble” tutti i colpi sono ammessi, soprattutto quelli proibiti.
Con un riflesso condizionato dall’antica politica coloniale marcata “Francafrique”, Parigi muove truppe e aviazione contro i jihadisti in difesa del governo di Bamako ma la partita non è soltanto francese, come ovviamente non lo era quella libica quando Sarkozy fece decollare i jet per bombardare Bengasi. Neppure Hollande si è fatto sfuggire l’occasione per fare la “sua” guerra.
Questa è una battaglia che interessa direttamente anche gli americani per la presenza di Al Qaida, gli stati della regione - Algeria, Libia, Tunisia - sottoposti a infiltrazioni islamiche e terroristiche alle frontiere, coinvolge gli interessi delle monarchie arabe del Golfo che hanno finanziato i movimenti integralisti in ascesa in tutta l’Africa (a Doha è sorto un comitato talebano e salafita per il Nordafrica) e investe interessi economici e minerari che vedono da qualche anno in concorrenza gli europei, gli americani, i russi e la Cina.
Già si sapeva che la caduta di Gheddafi avrebbe sprofondato le frontiere di mille chilometri: il Colonello era il guardiano del Sahel dove teneva a bada alleati e avversari. Fu per questo motivo che l’Algeria si oppose all’attacco contro il regime di Tripoli temendo un’avanzata degli islamici sotto il Sahara, come è puntualmente avvenuto in Mali dove le milizie di Al Qaida del Maghreb (Aqmi) sono guidate dall’algerino Belmokhtar detto il Guercio, una sorta di Mullah Omar del deserto, e Ansar Eddine risponde a Iyad Ghaly, un tuareg rigorosamente islamizzato dopo essere stato diplomatico in Arabia Saudita. Due terzi del Mali del Nord sono stati talebanizzati, l’affascinante Timbuctù devastata e le milizie hanno imposto la legge islamica.
Al disastro hanno contribuito una cronica debolezza interna, il colpo di stato del capitano Sanogo, la fragilità del presidente Traoré, incapace di tenere a bada l’esercito e il malcontento della popolazione. Venti di primavera araba e di guerriglia islamica si sono incrociati in una tempesta perfetta tra le sabbie e le antiche tombe dei marabutti.
I numeri delle forze in campo possono apparire sorprendentemente modesti. L’esercito maliano conta 10mila uomini di cui soltanto duemila “motivati” a combattere. Molti generali, per prudenza, hanno smesso di portare la divisa. I guerriglieri sono 4-5mila ma agguerriti. Secondo gli esperti ci vorranno alcuni mesi per ribaltare gli equilibri militari, un risultato possibile se ai francesi si aggiungerà il sostegno del Pentagono e africano. Quello della Nato, alla quale aveva rivolto un accorato appello l’Unione africana, appare fuori discussione: non vede l’ora di andarsene da Kabul e non intende infilarsi in un Afghanistan africano.
In questo quadro le Nazioni Unite si sono mosse con un’involontaria e tragica comicità: avevano previsto di schierare un contingente militare nel settembre 2013, quando il governo di Bamako probabilmente sarebbe già stato spazzato via. Ma è evidente che con gli interessi in gioco, da quando è cominciato il nuovo “scramble for Africa”, a sgomitare nella mischia del Sahel ci sono attori ben più determinati.