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 2013  gennaio 14 Lunedì calendario

IL RE DEI PANETTIERI NEL PAESE FANTASMA


«Non ti fare fottere dalla nostalgia», intimava Alfredo-Noiret al piccolo Totò di «Nuovo cinema Paradiso» raccomandandogli di non voltarsi indietro, di dimenticare la Sicilia, «terra maligna». Maurizio, invece, con la nostalgia ha impastato il pane, è vissuto ogni giorno, ha scelto contro tutto e tutti di non lasciare il suo borgo di 11 abitanti perduto tra le campagne dell’Isola. «Pazzo, mi dicevano, quando ho deciso di aprire il forno qui, dove sono rimaste solo la mia famiglia e quell nella casa lì di fronte. Vattene come hanno fatto tutti gli altri a cercare lavoro altrove, mi urlavano».

E invece Maurizio ha vinto la sua scommessa con la vita, una sfida personale che sa di storia universale. E che racconta come dalla periferia, dalla tradizione, dal ritorno alla natura e ai suoi ritmi possa partire una storia imprenditoriale che sta per essere coronata dal premio «Best in Sicily», assegnato dal portale «Cronache di gusto» alle eccellenze siciliane. Tra legioni di scintillanti rivendite di città e di ottime botteghe di paese, i gourmet hanno deciso che il migliore fornaio dell’Isola è proprio Maurizio Spinello, 35 anni, il fornaio del borgo Santa Rita, a undici chilometri da Caltanissetta.

Il paese quasi fantasma costruito nel 1920 dal barone Ignazio La Lomia per i contadini del suo feudo che nel tempo hanno acquisito la proprietà delle case, cubetti bassi di pietra su cui svetta la chiesa intitolata alla patrona, dedicata dal barone alla moglie nel 1935.

«Questa è casa mia», dice Maurizio presentando madre, padre, i figli Salvatore di 11 anni e Marco di 8. Ragazzini sorridenti, innamorati del borgo. «Andarcene? Mai», dicono ridendo di ritorno dalla scuola che sta nel paese di Delia, a un quarto d’ora dal villaggio. «Un tempo la scuola era qui - racconta il fornaio - c’erano pure la caserma dei carabinieri, la rivendita di tabacchi, lo spaccio alimentare. Era pieno di famiglie di contadini e pastori. Ma negli Anni 60 cominciò l’esodo. Mio padre restò, con le sue 40 mucche, ma ci dava da vivere sempre più a fatica. Finché mia madre, per arrotondare un po’, si mise a fare il pane e a venderlo alla gente di passaggio, con un po’ di latte e qualche uovo. Quel pane è diventato la mia vita».

La svolta nel 1999: Maurizio ottiene la licenza. E poco dopo convince il direttore della filiale della Banca Toniolo a concedergli un prestito di cento milioni di lire: «Quando gli ho parlato del progetto si è quasi commosso».

Si apre una porta, esce agile un’anziana. «Buongiorno, signora Gina». Ha 90 anni, ne dimostra 20 in meno. La più anziana del borgo, la capostipite dell’altra famiglia che è rimasta. Suo figlio Vincenzo - moglie e tre figli - fa il contadino. «Ma io sono l’unico che ha la residenza qui, posso fare il sindaco», scherza Maurizio mostrando la sua prima bottega e la nuova, più grande, aperta tre anni fa in quella che era la stalla del padre. Dietro la rivendita, un laboratorio di 140 metri quadrati dove lavora dalle 5 del pomeriggio alle 4 del mattino, spesso da solo, talvolta aiutato a turno dai genitori.

Al centro il forno, alimentato dal legno di mandorlo e di ulivo. «Grandi sacrifici e fatica. Ma sono felice - racconta - e penso a chi è andato in città e ora è disoccupato. Ricordo i loro sorrisi di sfottò». Dicevano: ma a chi venderà il pane? «All’inizio rifornivo una catena di supermercati e le botteghe dei paesi del circondario, ero diventato quasi un monopolista, facevo 250 chili al giorno e giravo come un pazzo con il mio furgone. Ma ce la facevo appena, perché vendevo a prezzi bassi. Dopo 7 anni ho incontrato gente che lavorava con il biologico. Si è aperto un mondo, il mio mondo». Il suo mondo sono i grani antichi siciliani che mostra come le monete di un tesoro: «Si chiamano Russello, Tumminia, Perciasacchi, Senatore Cappelli. Rendono meno delle varietà convenzionali, ma la qualità è incomparabile». E poi c’è il mulino, a pietra. «Ho girato mezza Sicilia per trovarne uno, tutti mi facevano vedere quelli moderni, che surriscaldano il grano durante la molitura. Poi ho incontrato un altro pazzo come me, Filippo Drago, e il suo mulino del ponte, alle porte del paese di Castelvetrano. Ho chiuso il cerchio».

Mostra le pagnotte, pronte a essere infornate: «Non c’è ombra di lievito di birra, perciò il pane resta fresco per 15 giorni. Ci sono solo farina, acqua, sale e crescente, cioè la pasta madre ricavata dal pane già lievitato. Ogni volta che faccio il pane, ne prendo un pezzo e lo conservo per l’impasto successivo, una catena che non si spezza mai».

Con la qualità, sono arrivate la certificazione dell’Aiab (l’associazione italiana di agricoltura biologica) e le richieste da spacci e mercati qualificati di tutta Italia. «Ho ridotto la produzione: 150 chili al giorno e sono orgoglioso di ogni boccone. Lo assaggi». Sa di fieno, di terra, di legno. Sa della gioia di avercela fatta.