Lettere a Sergio Romano, Corriere della Sera 14/01/2013, 14 gennaio 2013
IL PICCOLO POPOLO DI KERCH ITALIANI NELLA TORMENTA - A
proposito di popoli in fuga nel XX secolo, lei ha fatto cenno a una piccola comunità italiana nell’Unione Sovietica durante la Seconda guerra mondiale. Vuole parlarcene?
Giovanni Caputo, Crotone
Caro Caputo, non di fuga occorre parlare in questo caso, ma di trasferimento forzato nello stile di quelli che Stalin ordinò frequentemente soprattutto durante la Seconda guerra mondiale. Le vittime furono alcune centinaia di cittadini sovietici di origine italiana, eredi di immigrati soprattutto pugliesi che si erano installati verso la metà dell’Ottocento a Kerch, una città ucraina costruita sull’istmo che separa il Mar Nero dal Mare di Azov. Il 29 gennaio 1942 furono svegliati all’alba, ammoniti a portare con sé soltanto un bagaglio non superiore ai 16 chilogrammi, accatastati nella stiva di una nave e di lì trasportati, attraverso un tratto di mare pullulante di mine, nella città russa di Novorossijsk.
Era soltanto l’inizio di un lungo viaggio che si sarebbe concluso un mese dopo, nel mezzo di un inverno particolarmente rigido, in alcuni borghi rurali del Kazakistan. Le donne furono assegnate ai kolchoz (le fattorie collettive create dal regime dopo la confisca della terra), gli uomini ai lavori forzati nelle miniere della regione e nel grande impianto metallurgico di Cheljabinsk, a 200 chilometri da Ekaterinburg. Nel primo inverno molti morirono di fame e di freddo, altri si ammalarono. In un lungo saggio sull’emigrazione italiana in Russia e in Unione Sovietica, apparso in un volume della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, gli autori (Elena Dundovich, Francesca Gori, Emanuela Guercetti) ricordano che la cacciata degli italiani da Kerch avvenne in una delle fasi più incerte e tumultuose della Seconda guerra mondiale. I tedeschi e i romeni avevano invaso l’Ucraina e l’istmo di Kerch nel settembre 1941, ma una parte del territorio era stata riconquistata dall’Armata Rossa e dalla Flotta sovietica del Mar Nero tra la fine di dicembre e i primi di gennaio 1942. Vi sarà un nuova offensiva tedesca nel maggio del 1942 e le forze sovietiche dovranno abbandonare nuovamente la città. Ma gli italiani accusati di collaborazione con il nemico erano già stati trasferiti in Kazakistan.
Alla fine della guerra, quando le famiglie poterono ricongiungersi, molti restarono in Kazakistan o a Cheljabinsk. Ma quelli che tornarono a Kerch, ricostruirono la comunità, conservarono la memoria delle loro esperienze e delle loro tradizioni. Oggi, dopo il crollo dell’Urss, hanno cercato di ristabilire un contatto con la madrepatria e chiedono a Roma, insieme al riconoscimento della loro esistenza, un passaporto italiano. Se vorrà avere maggiori notizie su questa vicenda, caro Caputo, le troverà in una interessante raccolta di documenti a cura di Giulio Vignoli pubblicato dalle Edizioni Settimo Sigillo con una prefazione di Stefano Mensurati. Il libro, qua e là, ha toni nazionalistici e, soprattutto, cede occasionalmente alla tentazione di presentare gli oriundi italiani di Kerch come una comunità irredenta. Ma la loro storia merita di essere conosciuta e ricordata. Lo fece, tra i primi, Dario Fertilio in uno dei venti racconti di cui si compone il suo La morte rossa, pubblicato da Marsilio nel 2004.
Sergio Romano