Paolo Maurensig, Corriere della Sera 14/01/2013, 14 gennaio 2013
L’ITALIANO CAMPIONE DI SCACCHI (DOPO UNA SFIDA LUNGA TRE ANNI)
Oltre al giovanissimo Caruana, un altro italiano si è distinto nell’ambito dello scacchismo internazionale: il grande maestro Fabio Finocchiaro di Catania, divenuto, a 73 anni, campione del mondo di scacchi per corrispondenza.
Al lettore che poco sa di scacchi va spiegato che il gioco per corrispondenza consiste nel comunicare le mosse — e altresì attendere le contromosse — a un avversario che risiede in qualsiasi punto del globo, affidandosi alle Poste. Quelle di un tempo, s’intende, poiché oggi si ricorre al webserver Iccf della Federazione, e riesce difficile immaginare un solerte postino che, con la sua sacca di cuoio a tracolla (viene spontaneo ricordare l’indimenticabile Massimo Troisi), percorra chilometri in bicicletta, con qualsiasi tempo, per recapitare al destinatario un piccolo cartoncino giallo che riporta un breve messaggio cifrato. Trattasi, infatti, della gloriosa cartolina postale, ormai in disuso da molto tempo, e di cui il nostro campione deve aver fatto una bella scorta. Ed è qui, infatti, che la notizia assume ulteriore interesse, poiché il nostro Fabio Finocchiaro ha ottenuto dalla Federazione Scacchistica il permesso di ricorrere, finché ha potuto, a questo mezzo obsoleto. Alla fine, però, ha dovuto cedere piegandosi anche lui, per questo torneo mondiale iniziato nel lontano 2009 e finito la scorsa settimana, alle esigenze della modernità.
Tuttavia, la notizia di questa sua strenua resistenza mi ha fatto tornare indietro nel tempo di quasi mezzo secolo, quando per la prima volta entrai in un circolo scacchistico. Allora non ero molto esperto di scacchi e, come nuovo venuto, non mi azzardavo a chiedere a qualcuno di poter giocare. Avevo il timore di un rifiuto, e così mi limitavo a osservare con discrezione le partite degli altri, i quali mi sembravano tutti dei mostri di bravura. Finché una sera, con mia grande sorpresa, un signore anziano, dalle sopracciglia cespugliose, non mi invitò a sedere al suo tavolo, dove era disposta una scacchiera con i pezzi già sviluppati in un centro di partita. Senza tanti preamboli mi invitò a continuare il gioco da quel punto. Feci del mio meglio cercando di fare le mosse migliori, mosse che il mio avversario cominciò ad annotare in un voluminoso block notes. La partita però non andava molto in là: arrivati a un certo punto, lui interrompeva il gioco rimettendo i pezzi nella posizione dalla quale avevamo iniziato, e alla mia mossa rispondeva con un’altra, che mi obbligava a un seguito diverso.
La cosa si ripeté parecchie volte. Per quanto le sue possibilità di difesa fossero spesso limitate (a volte una sola e anche risicata), il mio avversario non disdegnava qualche variante che nessuno avrebbe mai preso in considerazione, poiché evidentemente per lui disastrosa. Eppure, imperturbabile, la annotava fino in fondo, sottolineandola con una matita rossa. Mi chiedevo a che cosa servissero tutte queste analisi, e solo in seguito venni a sapere che quel bizzarro giocatore era un conte, appassionato al gioco per corrispondenza.
Il conte Antonino (lo chiamo solo per nome per rispettare la privacy) utilizzava infatti le cartoline postali, ma per un eccesso di prudenza le chiudeva in una busta e le spediva per raccomandata con tanto di ricevuta di ritorno (mi viene in mente che un giorno lo incontrai alle Poste centrali mentre stava cercando inutilmente di farsi restituire una lettera che era già stata inoltrata. Evidentemente si era accorto troppo tardi di aver spedito la mossa sbagliata).
Bei tempi quelli, quando gli scacchi erano ancora un gioco umano.
Al signor Finocchiaro va tutta la mia riconoscenza per il fatto di credere nell’antica bellezza del gioco degli scacchi, dove il fosforo dell’intelligenza umana non sarà mai completamente sostituito dal silicio delle macchine pensanti, e di credere ancora, in tempi in cui tutto tende a velocizzarsi all’inverosimile, nell’umana, nonché divina, «lentezza» che ci riporta alla mente quel detto orientale il quale sostiene che lo spirito umano non ama andare più veloce del passo di un cammello.
Paolo Maurensig