Claudio Sessa, la Lettura (Corriere della Sera) 13/01/2013, 13 gennaio 2013
D’ANDREA, IL DOTTORE «PAZZO» DEL JAZZ
Cornetta, tromba, clarinetto, sassofono, contrabbasso: è questa la complessa marcia di avvicinamento musicale, tutta all’interno dell’esplorazione del jazz, che ha infine portato Franco D’Andrea al pianoforte, del quale è da tempo considerato uno dei più sofisticati e originali interpreti non solo italiani ma europei e mondiali. Degno di nota è il fatto che D’Andrea in tutti questi strumenti si è formato da solo; il suo itinerario è quello di un assoluto autodidatta, anche nel campo della composizione, dell’arrangiamento, dell’insegnamento. Il pianista ha passato i settant’anni, è del ’41, ma è sempre sulla cresta dell’onda; Traditions And Clusters, il suo recente album doppio, ha incontrato l’apprezzamento di entrambi i maggiori referendum specialistici italiani, quello della storica rivista «Musica Jazz» e quello del mensile che si occupa del business musicale, «Musica & Dischi». E si tratta solo dell’ultima di una lunghissima serie di affermazioni, culminata sul piano internazionale (per il momento) con il Prix du Musicien Européen assegnato nel 2010 a Parigi dall’Académie du Jazz de France.
Nato a Merano, luogo davvero improbabile per un jazzista, l’8 marzo 1941, anche geograficamente D’Andrea ha seguito un itinerario complesso. Da bambino godeva delle orchestrine tirolesi che suonavano nelle strade: un’esperienza che il pianista paragona alla musica di New Orleans e che ha suscitato il suo entusiasmo per gli strumenti a fiato. «Fino agli anni Ottanta ho cercato di riprodurre sul pianoforte la carica di trombe e clarinetti, di cui sentivo una profonda nostalgia», spiega. Già al liceo però suona il pianoforte con dilettanti locali; e quando a vent’anni si trasferisce a Bologna per studiare Medicina trova una città piena di musicisti, che gli permettono di approfondire tutte le sue curiosità.
Partito dal Dixieland, infatti, il nostro è approdato al jazz moderno, che impone un’analisi accurata delle forme e soprattutto dell’armonia. Rigoroso e perfezionista («da piccolo volevo fare lo scienziato», racconta, «ma non dimentichiamo che anche gli scienziati devono fare i conti con la fantasia e l’intuizione») si getta nello studio di tutto ciò che gli manca della teoria musicale, solo per scoprire che i jazzisti, nel frattempo, hanno fatto qualche passo in più. Nel 1963 è nella Roma della Dolce vita, ormai convinto che la sua strada è quella del musicista. E subito lo accolgono jazzisti importanti: il trombettista Nunzio Rotondo, il sassofonista argentino Gato Barbieri che sarà per lui come un fratello. Nel 1965, apparentemente, si presenta l’occasione della vita: il celebre sassofonista americano Johnny Griffin gli chiede di entrare nel suo gruppo fisso. Sarebbe la piena visibilità, con dischi e concerti internazionali. Ma ancora una volta D’Andrea spariglia le carte. Si è fidanzato con Marta, una giovane milanese, e sceglie di stare con lei, anzi si trasferisce nella sua città. Alla faccia di tutti i luoghi comuni sui jazzisti dissoluti, egoisti e sfasciafamiglie...
I due torneranno a Roma, con i loro due bambini, fra il 1967 e il 1975, gli anni delle prime affermazioni personali di D’Andrea. Ma poi la scelta definitiva sarà Milano, perché la vita di un musicista integro non è certo facile e Marta ha un lavoro fisso che la soddisfa. I due momenti più popolari nella carriera di D’Andrea risalgono ai primi anni Settanta e hanno ancora legioni di estimatori. Uno è l’ingresso nel gruppo del Perigeo fondato dal contrabbassista Giovanni Tommaso: la risposta italiana al jazz elettrico americano di Miles Davis e dei Weather Report (gli Area, nati più o meno contemporaneamente, guardano più a musicisti come Frank Zappa). Il Perigeo incide cinque album, uno dal vivo al Festival di Montreux e uno addirittura in Canada; D’Andrea, con gli altri, è applaudito da platee di migliaia di persone. Un’esperienza unica ma anche un po’ straniante, anche perché sul piano economico il gruppo non ottiene i risultati sperati e dopo cinque anni si scioglie. Nel frattempo il pianista ha ritrovato Gato Barbieri, che lo vuole al suo fianco nella colonna sonora di Ultimo tango a Parigi, altra avventura molto gratificante. «Gato era splendido», ricorda Marta, «e io passavo un sacco di tempo anche con sua moglie Michelle. Peccato che non mi abbia mai invitata quando usciva a pranzo con Marlon Brando...».
Ma, intanto, D’Andrea ha dato anche vita a un gruppo basato sulle proprie idee musicali, il Modern Art Trio con il batterista Franco Tonani e Bruno Tommaso, cugino di Giovanni e anch’egli importante contrabbassista. La formazione ha un approccio unico: il pianista, attratto dalle conquiste libertarie del free jazz ma interessato anche a un preciso rigore formale, trova spunto nella musica seriale del primo Novecento europeo e decide di costruire le improvvisazioni su ben definiti intervalli fra le note anziché sulle griglie armoniche che fondano tanta parte della tradizione jazzistica. A questo approccio, che D’Andrea definisce di «atonalità disciplinata», il trio unisce uno spiccato polistrumentismo: i due Franchi vi suonano infatti anche vari strumenti a fiato.
Benché il Modern Art Trio viva una breve stagione, i suoi presupposti costituiranno la base di tutta la musica successiva del suo pianista: l’approdo al piano-solo, avvenuto nel 1980, in cui si attua finalmente la scoperta di tutte le potenzialità dello strumento, e i tanti gruppi fra i quali spiccano i due quartetti con sassofono, quello degli anni Ottanta in cui lo strumento è suonato da Tino Tracanna e quello, nato nel 1997 e tuttora attivo, che ai sassofoni vede Ayace Ayassot. Ai parametri più immediati della musica, la melodia e l’armonia, D’Andrea sembra preferire gli infiniti colori timbrici e dinamici (riaffiora l’amore per gli strumenti a fiato) e lo studio del ritmo, che per lui affonda nella millenaria sapienza della musica africana. Non a caso, ben prima della World Music, il pianista ha collaborato con il gruppo Africa Djolé proveniente dalla Guinea, fondendo in maniera peculiare due universi culturali.
E la sua capacità di anticipare i tempi s’incontra anche nella sintonia, fin dai primi anni Ottanta, con Thelonious Monk e Charles Mingus: due autori dall’immenso patrimonio musicale, che solo in quel decennio saranno assimilati senza remore anche dalla comunità jazzistica americana. Forse per questo D’Andrea non si considera un jazzista «europeo»: «Il jazz è una musica che fonde Africa, Europa e America e io mi sento parte di tutte queste esperienze».
Claudio Sessa