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 2013  gennaio 13 Domenica calendario

GLI ELEFANTI CHE FECERO LA REGGIA

Di nuovo l’altra sera, me l’hanno fatto: hanno cominciato, degli amici di Caserta, a dire che erano andati a Versailles, non c’erano mai stati. Alcuni dicevano che era peggio della Reggia, altri che era meglio, altri che era uguale. È un istinto che non si riesce a eliminare. Mi piacerebbe aver visto Versailles, o Schönbrunn, senza sentirmi costretto a fare confronti con un edificio gigantesco, un po’ rosa, e squadrato, che ho avuto accanto a casa mia per decenni. Perché in fondo è questa la verità: da un certo punto in poi, per accorgersi di vivere accanto alla Reggia, c’è bisogno che te lo dicano gli altri. Perché tu lo sai, ma non te ne importa. Eppure, questa città si è fatta intorno alla Reggia dal giorno in cui è stata costruita. O ancora prima, dal giorno in cui è stata posata la prima pietra: il 20 gennaio 1752. L’architetto Luigi Vanvitelli — che se ne stava tutto contento con il suo abito marrone e i disegni sotto il braccio, accanto ai sovrani Carlo di Borbone e Maria Amalia di Sassonia, ad aspettare l’inizio della cerimonia — racconta che quella mattina il cielo «si dimostrò così puro e lucido, come se ancora avesse preso parte nella pubblica letizia». Anche lui aveva imparato che dalle nostre parti, per dare un qualsiasi senso agli eventi, ci vuole La Bella Giornata. Da quel momento, per anni, lì intorno è tutto un cantiere immenso con carri pieni di marmo trainati da cammelli, centinaia di operai africani (marinai arrestati nel corso del tempo dalla flotta borbonica) che curano il giusto peso su decine e decine di elefanti: avanzavano lenti tra migliaia di lavoranti, in scene che dovevano stare a metà tra Ben Hur e una rappresentazione dell’Aida all’Arena di Verona. Poi, quando finalmente la costruzione fu portata a termine, cortigiani e milizie tirarono fuori una postura settecentesca che ricordava la corte parigina. Di conseguenza, il popolo si raccolse tutt’intorno, per far parte in qualche modo di quella corte. Oggi si direbbe che l’industria borbonica aveva portato occupazione alla popolazione indigena.
Per noi casertani, nella sostanza, dopo due secoli e mezzo, la Reggia è un luogo dove andare a fare jogging o in bici, dove portare i bambini la domenica mattina, come in un parco qualsiasi; e un fianco della Reggia ci serve per segnare il confine tra il centro della città e il resto.
Succede sempre così: gli accompagnatori più inaffidabili dei grandi monumenti sono quelli che vi abitano intorno. Il rapporto quotidiano con le architetture meravigliose è fatto di compagnia indifferente, e di continui rimandi per un’esplorazione seria. Chi viene da fuori, invece, ha poco tempo e i suoi occhi diventano avidi, accorre in ogni angolo perché non ha intenzione di perdersi nulla. Ha necessità di stampare ogni cosa nella memoria, mentre chi abita — come è capitato a me per tanti anni — di fronte, non ha nessun bisogno di ricordare, e rimanda; e intanto, quando va in un’altra città, diventa avido come quegli altri, e si meraviglia che quelli che abitano intorno mostrino di non apprezzare. È più o meno come succede in tutte le cose della vita.
Sono sicuro di averle viste le stanze della Reggia, quando ero piccolo, la sala del trono e il bagno della regina, la camera da letto e tutto il resto — ne sono sicuro perché continuavo a pensare che non c’era più bisogno di farlo visto che l’avevo fatto, e poi avevo nelle radici l’odore del Palazzo, che forse era l’odore del marmo, se il marmo ha un odore — e in ogni caso, ero convinto che fosse così. Ma non so dire né come né quando. Per il resto della mia giovinezza, ho temuto che arrivassero amici da fuori perché avrei dovuto accompagnarli a fare un giro alla Reggia. Del resto, è il modo che hanno gli esseri umani per difendersi dalla bellezza troppo vicina: pensate cosa accadrebbe a chi si sveglia ogni mattina accanto al Colosseo, se avesse la stessa sensazione di un turista giapponese.
Da bambini, ci portavano a una qualsiasi delle vasche e lanciavamo molliche di pane ai pesci — ce n’erano di molti colori; fino a quando non ci stancavamo o non arrivava l’ora del pranzo; così, attraversavamo la strada ed eravamo di nuovo a casa.
Era come un percorso naturale, una strada in un parco qualsiasi. La usavamo, la Reggia, distratti e incostanti, ed era come se non fosse la Reggia. Non andavamo mai alla Castelluccia o alla Peschiera, perché c’erano viottoli labirintici e non si poteva giocare, o c’era sempre l’ombra, e noi stavamo lì per goderci le domeniche di sole. Ci avevano detto così tante volte che nel Giardino Inglese c’erano alberi, piante e fiori molto rari e molto fragili, che non ci saremmo mai andati, per non essere colpevoli di qualche errore che avrebbe appassito un fiore o rovinato una pianta. Insomma: non sapevamo nulla dell’unica cosa che tutto il mondo conosceva della nostra città, sapevamo soltanto che non dovevamo fare danni.

Ora, invece, ogni volta che posso, entro dal grande ingresso principale, e percorro la strada che scorre sotto gli appartamenti; passando, sulla destra guardo la lunga scalinata che sale con i leoni lassù che aspettano, ma anche se sono tentato di andare, proseguo. Lì in fondo, poco oltre l’uscita, l’ombra della Reggia occupa qualche metro, e io vado fino al limite, perché oltre, facendo un solo passo, una luce accecante colpisce la testa, e il parco è tutto davanti, che punta verso l’alto; di fronte, lontanissimo, si vede il Monte di Briano, che ha quasi in cima un occhio come Polifemo: è la grotta. Da lì viene fuori l’acqua che si sparge poi per l’intero parco; arriva dal Monte Taburno e da altre fonti, e percorre un tragitto lungo quattro ore prima di uscire fuori da quella grotta. Anche questo l’ho imparato molto più tardi: i bambini non devono mai avere notizie precise — scientifiche — dei luoghi, altrimenti arrestano ogni azione e cominciano a pensare, e smettono di godere.
Di solito, quindi, i cittadini vivono fuori e i turisti passeggiano dentro i luoghi belli della città. Solo una sera, qualche anno fa, ci fu l’inaugurazione della Reggia di notte; soltanto quella sera d’estate, migliaia e migliaia di cittadini, tutti, ci riversammo nel parco a passeggiare per chilometri dal Palazzo fino ai piedi della cascata, e l’illuminazione era potente e fantastica e faceva luce su uno sciame di formiche che salivano e scendevano da ogni lato, e queste formiche erano tutte le persone che la città poteva contenere e anche di più, e quasi non si riusciva a camminare, ma c’era una commozione e un orgoglio che faceva sì che tutti avessero un sorriso stampato sulle labbra, un po’ stupido ma comprensibile, e sembrava che da un momento all’altro potessero comparire pure gli elefanti e i cammelli e tutti gli altri animali e gli operai che avevano costruito tutto questo. Per la prima volta — e forse mai più accadrà — le proporzioni erano invertite: la città era deserta, stavamo tutti dentro. Era un momento irripetibile. Ma poi qualcuno chiese se era o no meglio di Versailles, e rovinò tutto.
Francesco Piccolo