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 2013  gennaio 13 Domenica calendario

DOPO «THE END»

Uno. Mai più avrei pensato di iniziare un articolo così: «C’è chi come Lella Costa ama i ringraziamenti». Due: lo sto facendo davvero. Dunque: Lella Costa ama i ringraziamenti. Scrive: «Se c’è una cosa che mi piace dei libri è andare a leggere i ringraziamenti» (lo ammette nella pagina dei «Ringraziamenti» del suo nuovo libro Come una specie di sorriso, edizioni Piemme).
Questo per dire che, quando c’è da ringraziare qualcuno forse è meglio farlo all’italiana, cioè per telefono, e ciao. Perché i ringraziamenti, altrimenti, sono la cosa più disperante e pericolosa che ci sia in letteratura. Conclude infatti Lella Costa: «E infine ringrazio Paolo Sorrentino: lui non può saperlo, ma durante l’estate, mentre scrivevo (...) mi hanno fatto compagnia Tony Pagoda e i suoi amici, ed è stato un incanto. Chissà, magari anche a lui piacciono i ringraziamenti, e quindi almeno queste righe dovrebbe leggerle». Fossi in Paolo Sorrentino cambierei residenza, ma io sono fobico e non faccio testo. Rimane però il fatto che nei ringraziamenti il problema non è tanto il ringraziante, ma il ringraziato che si trova coinvolto in una rete di cortesie da cui è difficilissimo uscire. La Costa ha infatti passato il cerino nelle mani di Paolo Sorrentino che a sua volta si sentirà in dovere di rispondere alla Costa, scrivendole pubblicamente una cosa magari sugli incanti che gli provoca l’autunno, in una spirale senza fine di dolcezze e ammiccamenti e giulebbe.
I ringraziamenti sono il maleficio della letteratura contemporanea. Per dimostrarlo ho fatto un giro in libreria dove mi sono concentrato unicamente su quelle ultime pagine maledette.
In un’ipotetica olimpiade della disciplina «Ringraziamento in lungo», la medaglia d’oro la vincerebbe Walter Veltroni: sei pagine di ringraziamenti epici (L’isola e le rose, Rizzoli) a cui seguirebbe, in seconda posizione, una distrutta Lilli Gruber che, nonostante le premesse incoraggianti — «Questi ringraziamenti sono i più lunghi che io abbia mai scritto. (...) Sarò quindi minuziosa fino alla noia» — si ferma a tre pagine; parentesi: va segnalato come un fatto curioso il finale aperto dei ringraziamenti della Gruber: «Ho sicuramente dimenticato qualcuno. Perché è un’intera provincia che dovrei ringraziare. Il Sudtirolo che, mentre lo percorrevo in lungo e in largo per questo lavoro, mi ha restituito legami e memorie» (Problema filosofico: è legittimo esplicitare in atto un ringraziamento in potenza? In caso di risposta affermativa, la Gruber supererebbe Veltroni; occorrerebbe infatti aggiungere ai ringraziamenti l’elenco dei nomi degli abitanti del Sudtirolo inclusi i defunti per via di quel richiamo alle memorie che ne impone una presenza non solo ectoplasmatica o ipotetica).
Ma nei ringraziamenti non conta soltanto la quantità, direbbe Veltroni, conta anche la qualità. Si veda in tal caso la parte finale dei ringraziamenti di Federica Bosco nel romanzo Pazze di me (Mondadori): «E non ultimo ringrazio Mark Zuckerberg, per aver fondato Facebook e aver dato l’idea alla mia amica e mentore Kylee Doust di provare a contattare Marco Martani, che mi ha presentato a Fausto Brizzi con cui, alla fine, ho fatto un film insieme». È un capolavoro. Non so cos’altro aggiungere se non qualche banale perplessità sulla punteggiatura, su «insieme» vicino a «con cui», ma sono cose che si spiegano con l’entusiasmo dell’incontro tra Bosco e Brizzi (a questo punto non oso pensare alle conseguenze di un incontro tra Costa e Sorrentino). In ogni caso, è ormai chiaro che il mondo del ringraziamento è un mondo infinito. E che mostra abissi.
Per esempio l’aggettivo «Intenso». Ora, su «Intenso» bisognerebbe spendere un paio di parole: ma non posso pubblicarle qui, sono parolacce. «Intenso» è uno di quegli aggettivi che andrebbe abolito per legge, per decreto, per sempre. Uno dice «Intenso» e subito fa la faccia di circostanza, trasformandosi in imbuto. «Intenso» è come il «Particolare» del commesso viaggiatore. Quando il commesso viaggiatore rimane senza parole per descrivere le sue merci dice «Particolare», il ceto medio-riflessivo-democratico dice «Intenso». «Intenso» ricorre in alcuni ringraziamenti: «Grazie a Federico Grazioli, che ha disegnato il violoncello-isola a cui è ispirata la copertina, a Elena Faccani e Massimo Polidori per la partecipazione sensibile e intensa» (Daria Bignardi, L’acustica perfetta, Mondadori); poi: «A Riccardo Trani, il mio editor, determinato, intenso e gentile» (Giacomo Verri nei ringraziamenti di Partigiano Inverno, Nutrimenti editore; Verri non si è accorto che poteva dire le stesse cose scrivendo: A Riccardo Trani, il mio editor, che ha le stesse qualità di una grappa).
Nei ringraziamenti poi c’è sempre questa cosa della fatica che ricorre. C’è un’Opera e tutti quelli a cui l’Opera deve dire grazie per essere nata. I ringraziati sono come una massa di ostetrici riuniti a convegno alla fine della fatica. Sono come quei tifosi che fanno «op, op, op,» al ciclista in fuga, sono quelli della pacca d’incoraggiamento, sono le vittime delle bizze dell’artista di famiglia o del pianerottolo. Sono i nipoti e i cognati del genio: «Non esisterebbe niente di questo libro senza la mia famiglia: madre (grazie), padre (grazie), magnifici nonni, "sbinnonna", zii, cugini, tutti» (Virginia Virilli, Le ossa del Gabibbo, Feltrinelli).
Gli esempi mi sembra che abbiano illustrato la tesi di partenza dell’articolo. Più del ringraziante, il problema è il ringraziato. È lui che fa pena, che andrebbe ringraziato. Ma non si può fare, visto che è già ringraziato. Né si può ringraziare il ringraziante. Diventerebbe un ringraziato pure lui, contagiandolo nella maledizione del ringraziamento. Alla fine bisogna forse prendere atto che ogni volta che ringrazi qualcuno, la logica è la stessa, un po’ lo trasformi in zombie. Grazie.
Edoardo Camurri