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 2013  gennaio 13 Domenica calendario

ATTENTI AL MACACO CHE E’ IN NOI

Ricoperto da una «seconda pelle» di scarpe firmate e lingerie raffinata, cravatte di seta e monili, per tacere dell’intrico sempre più fitto di gadget high-tech, l’Homo sapiens si specchia e percepisce come una specie a sé stante. Dimentica — o rimuove completamente — il suo stretto rapporto di continuità/contiguità coi primati non umani, di cui è una ramificazione filogenetica: in una parola, non vede la scimmia che è in lui.
È un atteggiamento, sia chiaro, del tutto naturale, perché è l’evoluzione stessa a programmarci come animali «dualistici», tesi cioè a separare, nell’esperienza quotidiana, gli «alti livelli» delle elaborazioni culturali da quelli — sottostanti e silenti — del condizionamento biologico. Ma una simile rimozione genera anche molti abbagli proprio su tante questioni «alte», se non «ultime»: se tornassimo alla prospettiva darwiniana — a vederci come «scimmie nude», come diceva Desmond Morris — potremmo evitare confabulazioni ed equivoci sulle ideologie politiche, i rapporti economici, i comportamenti sessuali e sociali.
L’occasione per rimediare è offerta da due libri notevoli del biologo-primatologo Dario Maestripieri, attivo da tempo all’Università di Chicago: il primo, edito nel 2007, riguarda le analogie/omologie tra l’Homo sapiens e i macachi rhesus (il titolo originale è Macachiavellian Intelligence, che la versione italiana edita da Centro scientifico, piallando il calembour, traduce come Intelligenza machiavellica); il secondo, Games Primates Play (Basic Books), uscito da poco negli Usa, propone un più stratificato parallelo tra comportamenti di primati umani e non umani.
Intrecciando i due libri, vediamo anzitutto come Maestripieri spieghi quella rimozione. Tutto dipende, per un verso, dalla nostra tenace tendenza antropocentrica: impettiti dal nostro successo ecologico e dalla nostra complessità cerebrale, guardiamo paternalisticamente gli altri viventi come in un cartoon disneyano: le scimmie diventano interessanti se «ci» somigliano, quando siamo noi — invece — a somigliare loro. Per un altro verso — conseguenza del primo — rifiutiamo l’idea di essere un patchwork di strutture organiche precedenti, spesso remote. E qui, accanto al «pesce che è in noi» (i polmoni come sviluppo delle branchie) o alla migrazione di emozioni «rettiliane» nei nostri cervelli (la paura), Maestripieri avrebbe potuto ricordare come le proteine delle nostre connessioni neurali siano quelle dell’adesione cellulare di antichissime spugne, o come un gene decisivo del linguaggio (il Fox P2) sia stato e sia adibito — nell’uomo e in altri animali — all’attività respiratoria, senza la cui modulazione non parleremmo. Ci turba, in sintesi, riconoscere che la nostra unicità si irradi da un nucleo di schemi emotivo-cognitivi elementari (orientamento spazio/temporale, fuga/predazione, riproduzione).
Paradossalmente, questo mix di «orgoglio e pregiudizio» verso condivisioni così prosaiche si acuisce quando — come avviene tra scimmie e uomini — continuità bio-anatomiche si traducono direttamente in continuità comportamentali: l’anti-darwinismo vittoriano ne è una prova eclatante. Ma poi — paradosso sul paradosso — una volta accettata tale continuità, ci spiazza il vederci più prossimi, come argomenta Maestripieri, non tanto alle scimmie antropomorfe, tipo i concilianti scimpanzé o i dolci bonobo (a cui ci apparenta il 98 per cento del genoma e i cui antenati si sono separati dai nostri 5-6 milioni di anni fa), quanto a «scimmie medie» come i rhesus, più distanti in ogni aspetto (il 95 per cento di Dna comune e un bivio filogenetico di 25 milioni di anni).

Anche se distinto dai rhesus per tratti bio-sociali condivisi proprio con certe antropomorfe (patriarcato, coscienza di sé, cura biparentale della prole, comunicazione complessa), l’uomo ne ricalca infatti l’alta flessibilità adattativa in ambienti molto diversi, l’aggressività colonizzatrice (come certe erbacce) e l’ intelligenza «machiavellica» realistico-pragmatica. Soprattutto, ne condivide un’organizzazione sociale gerarchico-dispotica e nepotistica, che induce stringenti analogie/omologie da un lato con gli eserciti e le dittature (o con democrazie populiste), dall’altro con la mafia e le baronie universitarie.
Nel dettaglio, ogni gruppo di macachi (3-4 linee di discendenza per via materna, di 50 individui ciascuna) si fonda sulla «dominanza» familistica di un vertice e della sua parentela su un insieme di «subordinati», con la gerarchia preservata grazie a attacchi preventivi dei dominanti (il «rinfrescare la memoria» ai subordinati) o più raramente da azioni difensive contro «rivoluzioni» attuate solo quando i vertici sono vulnerabili (in minor numero). Le simmetrie politiche con l’uomo sono evidenti: così come lo sono quelle psico-sociali (la costante allerta competitiva, con la cooperazione extra-parentale limitata ad alleanze «do ut des») e quelle, più dettagliate, tra i caratteri (i «ranghi alti» meno stressati e più longevi) e le relative strategie, con un fitto ventaglio, specie tra i subordinati, di rampanti, adulatori e opportunisti che corrono «in soccorso dei vincitori», come gli italiani secondo un famoso detto di Ennio Flaiano.
Particolarmente istruttiva risulta la sessualità, con le femmine (stanziali) e i maschi (nomadici) che rompono la consegna familistico-xenofoba per evitare i danni genetico-biologici dell’incesto e diversificare-arricchire il genoma; e con sottili stratagemmi femminili di transazione economica (copula in cambio di protezione) o di inganno riproduttivo (l’accoppiarsi con molti maschi per rendere ambigua la paternità e inibire il rischio, altissimo, di infanticidio, regolarmente praticato sulla prole non propria). Anche qui, fatte le debite differenze, uomini e macachi condividono la stessa dialettica riproduttiva tra «gene egoista» e «necessità» del meticciato; ma mentre per il rhesus, opaco a se stesso, il problema non si pone, l’uomo fatica ad ammettere che tante opzioni individuali e sociali (fedeltà e adulterio, familismo e xenofobia) siano sottodeterminate da vincoli biologico-evolutivi così automatici e tirannici.
Alla fine, l’omologia/analogia tra uomini e macachi — come tutte le disamine freddamente amorali, costitutive della scienza — può indurre in tentazioni strumentali, tra reazionari compiaciuti (che l’adottano per legittimare una visione «hobbesiana») e progressisti che la rigettano, invocando correzioni culturali verso valori come egualitarismo e solidarietà (evolutivamente più recenti) e adottando magari i più altruisti e socievoli bonobo al posto dei macachi.

In realtà, in ottica scientifica, sono letture ugualmente devianti: più vicina a quella dei rhesus (in questo la provocazione di Maestripieri centra il bersaglio), la natura umana non vi si esaurisce, come mostra la tendenza costante a evolvere in società che armonizzino il più possibile (e in maniera imperfetta) mercato e welfare, arricchimento individuale e redistribuzione.
Semmai, la nostra parentela coi rhesus innesca una definitiva autocritica sulla nostra vanità antropocentrica. Se, da un lato, abbiamo trasformato il «sorriso» stereotipato dei macachi — uno dei loro rituali di sottomissione autoconservativa — in quello di una Madonna di Leonardo, dall’altro non possiamo non vedere come nel loro matriarcato il maschio non possa accoppiarsi senza l’assenso della femmina: per i rhesus, non solo l’incesto, ma anche lo stupro è un tabù. In questa prospettiva, forse, il genere Homo è più nominale che reale. In questa prospettiva, il vecchio mito pseudoscientifico dell’«anello mancante» torna come utile metafora: perché quell’anello, a ben guardare, siamo noi.
Sandro Modeo