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 2013  gennaio 14 Lunedì calendario

LOTITO, IL “RE DI SALERNO” PRONTO AD AIUTARE SILVIO


«Dico, ma lei lo sa perché ho portato Petkovic a Roma?». In effetti no. «Perché è alto e grosso. Incute timore. E poi parla otto lingue. Ma soprattutto perché ha lavorato alla Caritas. E io ho una visione noumenica dell’esistenza, mica fenomenica». Scusi? «La moralità, non capisce?, quella è la mia stella polare, mica la scienza». Ci sono molti modi inutili per manipolare Kant e il suo dualismo, ma nessuno lo sa fare con la sicurezza spiazzante del presidente della Lazio Claudio Lotito, candidato in pectore per il Pdl in Campania e re della Salernitana e di Salerno, dove, dopo aver rifondato la squadra, si è guadagnato il nomignolo di Lot-idolo. La piazza lo adora, ipnotizzata dall’universo parallelo del presidente in cui Manzoni e Socrate si fondono per trovare la quadratura impossibile del cerchio della vita. Champions League e politica, impresa e tribunali nella più irresistibile delle lavatrici arcitaliane. «Il nostro è un Paese di “prenditori” e “magnager”, ma per me conta solo la Polis». E gli inciampi giudiziari, presidente? «Ingiustizie. Presto sarà chiaro. So che è il Signore a scegliere la mia strada». Perciò Berlusconi lo adora. Come li batti due Unti dall’Altissimo?

L’uomo, mascella larga, occhi piccoli e duri, sposato con Cristina Mezzaroma (rampolla di una delle più potenti famiglie di costruttori romani), è capace e ambizioso. E di certo fuori dal comune. «Ho risanato la Lazio in tre anni. E la Salernitana, che era defunta, l’ho riportata in testa alla Lega Pro. Agli italiani direi: fino al 2015 mangeremo pane e acqua, poi sulle tavole tornerà il filetto. Dare una scadenza è importante. Io la penso come Manzoni: l’utile per scopo, il vero come soggetto, l’interessante per mezzo». C’è nesso? Chi può saperlo.

Nella villa all’inizio dell’Appia Antica - parco spettacolare e ufficio Luigi XVI con affreschi di Baratta alle pareti - Lotito Claudio, nato a Roma il 9 maggio del 1957, dunque Toro, gestisce un impero che si occupa di pulizia, manutenzione e sicurezza privata dando lavoro a seimila persone. «Troppa burocrazia. Io sono per tutelare l’occupazione, non il posto. Sono per il merito. E ho una visione paternalistica del lavoro». Paternalistica? «Da padre, non autoritaria. Certo, il collaboratore deve riconoscere la mia autorevolezza». Va a letto tardissimo, si alza alle sei, lavora fino a mezzanotte usando quattro cellulari e per rilassarsi va con le guardie del corpo (ha due scorte, una pubblica e una privata) in un localino di via del Corso per giocare a carte. «Chi sono i guardoni che lo dicono? Gioco a scopa qualche volta, tutto qui. In Italia il successo è imperdonabile. Se ti realizzi ti attaccano. Ma io sono bravo. So fare. E la cultura è stata la mia unica bussola». Diploma al classico, laurea in pedagogia e buone relazioni. Soprattutto con la pubblica amministrazione. Tra i suoi clienti la Regione, la Provincia di Roma, l’Azienda ospedaliera Spallanzani e anche la Guardia di Finanza. Ecumenico, trasversale, irresistibile. «Gli affari migliori li ho fatti con la sinistra».

Fino al 2004, quando acquistò la Lazio grazie a una rateazione fiscale da record del mondo (24 anni) era noto alle cronache solo per una storia legata a tangentopoli. Trentacinque giorni in galera. «Carcerazione preventiva. Innocentissimo. Pregavo. E facevo pregare i miei compagni. Alcuni li ho convertiti». Piazzista di Dio. O, come sostiene lui, un monaco del lavoro. Ma se porti il saio devi suonare la campana ogni giorno. «All’inizio i tifosi della Lazio mi chiamavano Lotirchio, credevano di intimidirmi. Ma io sono per un calcio moralizzatore, didascalico».

La condanna in primo grado a un anno e tre mesi per Calciopoli gli pare un dettaglio. «Un errore che sarà riconosciuto presto».

La prima volta che si presentò in Lega lo presero per una specie di Wanna Marchi che aveva ingoiato un vocabolario di latino. Da quando ha cominciato a vincere spendendo è diventato un punto di riferimento. «Fossi al governo approfondirei la riforma delle pensioni e obbligherei chi amministra la cosa pubblica al pareggio. Chi non è all’altezza fuori». Duro, ma giusto.

Su di lui gira un’infinità di leggende. Le ignora tutte. Tranne una. Quella secondo la quale avrebbe pagato una cena da duecento euro in un prestigioso ristorante della Capitale con due biglietti della tribuna Montemario. «Inconcepibile». Il telefono squilla, lui si alza, «carissimo», inizia un discorso bizantino di trenta minuti e si congeda lasciando vagare lo sguardo nell’ufficio che sembra Versailles. «Sono un uomo libero. Indipendente. Gioco per Berlusconi? No. Gioco per il Paese». Lotito, Lotirchio, Lot-idolo, Loitaliano luci e ombre, il bene e il male, il filosofo creativo convinto che le coincidenze siano l’ultimo rifugio degli uomini senza fantasia. «Quando mi guardo intorno penso: Dio mi ha aiutato. Ma sono stato bravo». Primus inter pares. Primus e basta.