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 2013  gennaio 14 Lunedì calendario

SPIRAGLI DI FIDUCIA: FINESTRE APERTE (DA NON CHIUDERE)


«In fondo al tunnel del 2013 ci sono più luci che ombre»: concludeva così, due lunedì fa, questa colonna. A distanza di due settimane, come è variato il gioco di luci e ombre? Fortunatamente, per il meglio. In America, quello che due settimane fa era stato descritto come «l’inevitabile accordo sul fiscal cliff» è arrivato ed è stato accolto favorevolmente dai mercati. È vero, questo accordo è stato criticato perché non risolutivo ed è facile criticarlo. Ma ci sono anche aspetti che fanno ben sperare per il futuro.
È importante cominciare dagli Usa, perché senza una ripresa duratura dell’economia americana - pur sempre la prima al mondo e quella che più di ogni altra può irradiare fiducia o sfiducia - il mondo intero non si caverà d’impiccio. L’America ci ha cacciato in questo pasticcio con la finanza impazzita dei subprime che ha scatenato la Grande recessione; e l’America è in prima linea anche nella seconda fase della crisi, quella legata alle conseguenze sui debiti pubblici. Pur se questa seconda fase non ha assunto i toni drammatici che hanno rigato la crisi dei debiti sovrani in Europa, è da sottolineare che la situazione sottostante della finanza pubblica americana è più grave rispetto a quella dell’Eurozona, sia in termini di deficit (dati 2012, fonte Fmi: 8,7% del Pil in Usa, 3,3% nell’Eurozona) che di debito (107,2 contro 93,6%). Malgrado questa "gravezza... ch’uscia di sua vista" gli Usa non hanno sofferto problemi di finanziamento. Il ruolo di Paese-rifugio li ha aiutati, così come una Banca centrale che ha fatto il suo mestiere di prestatore di ultima istanza. L’accordo sul fiscal cliff ha rivelato la debolezza dei repubblicani che hanno dovuto cedere sul fronte fiscale (non bisogna dimenticare che i repubblicani hanno perso la Camera in termini di voto popolare, e hanno mantenuto la maggioranza dei seggi solo grazie al sapiente ritaglio delle circoscrizioni elettorali), ciò che fa pensare che si troverà un accordo anche sulla questione dei tagli.
L’Europa non può fare da locomotiva, ma può almeno non fare da freno, come ha fatto finora. L’alleggerimento delle tensioni sullo spread suggerisce un’economia reale meno sfiduciata e più ricettiva alle spinte interne ed esterne. L’altra metà del mondo - i Paesi emergenti - non smettono di emergere. Qualche mese fa Tom Albanese, il boss della Rio Tinto, una delle più grandi società minerarie del mondo e grande fornitore della Cina, disse di aver avuto assicurazioni dai dirigenti cinesi che la Cina non avrebbe smesso di andare avanti e che l’insediamento della nuova dirigenza avrebbe coinciso con un’accelerazione del passo. Un’assicurazione cui era facile dar credito in un Paese dirigistico e con ampia disponibilità di strumenti monetari e di bilancio per far ripartire l’economia. E questo sta in effetti succedendo.
Ma una notizia ancora più confortante viene dal Giappone. Il nuovo Governo ha deciso di sfidare l’ortodossia della moneta e del bilancio e di percorrere nuove vie per far uscire l’economia dalla trappola della scarsa crescita.
La Banca centrale giapponese si avvia a essere «credibilmente irresponsabile» come Paul Krugman, fra il serio e il beffardo, la esortava a essere dieci anni fa, e a creare inflazione per far uscire il Paese dalla palude della deflazione. E il Governo giapponese, malgrado i deficit e debiti da record mondiale, ha avviato un massiccio programma di stimoli di bilancio.
Funzionerà, non funzionerà? Non lo sappiamo, ma quello da registrare è che fra i reggitori delle politiche economiche nel mondo spira un’aria nuova.
Proprio nei bastioni della conservazione - le Banche centrali serie e abbottonate - sono arrivate folate di pensiero laterale. Alle manovre ortodosse sui tassi si sono aggiunte manovre eterodosse sulla moneta, facendo agire il torchio - o il suo equivalente elettronico - e inondando le economie di liquidità (perfino in Svizzera!), sfidando le incolte paure di chi temeva il via libera all’inflazione.
Il tabù dei finanziamenti diretti della Banca centrale al Tesoro - divieto purtroppo incorniciato nel Trattato di Maastricht - è stato infranto senza conseguenze in Paesi meno terrorizzati dai ricordi dell’iperinflazione di Weimar.
Ma anche in Europa la sapienza e l’astuzia di Mario Draghi hanno permesso alla Bce di svolgere un utile ruolo di supplenza di fronte ai ritardi e ai veti incrociati di una governance che per tutta la crisi ha fatto due passi avanti e un passo e mezzo indietro.
Queste nuove finestre che si sono aperte nelle stanze ammuffite delle politiche monetarie hanno anche portato tensioni: il ministro delle Finanze brasiliano Guido Mantega aveva coniato l’espressione «guerre valutarie» quando aveva protestato contro la creazione di moneta da parte della Federal Reserve che, a suo dire, aveva indebolito il dollaro portando a un eccessivo apprezzamento del real brasiliano.
La stessa accusa viene ora rivolta contro il Giappone: la politica della Banca centrale, si dice, sta artatamente indebolendo lo yen, configurando un’indebita svalutazione competitiva. Questa critica è esagerata: dall’inizio della grande crisi (2007) al novembre scorso lo yen era la moneta che più si era apprezzata in senso reale, e i produttori giapponesi avevano sofferto una perdita di competitività-prezzo del 20% circa. Il deprezzamento recente (da novembre a oggi) è una correzione solo parziale di quella perdita.
Molta acqua deve ancora passare sotto i ponti prima di esser sicuri che il 2013 sarà l’anno della svolta. Ma possiamo almeno affermare che, dal punto di vista congiunturale e strutturale, entriamo in quest’anno con più ragionate speranze di quelle che nutrivamo a inizio 2012. Vi sono tuttavia almeno tre condizioni che devono essere soddisfatte per confermare i germogli di ripresa.
Primo, bisogna che il coordinamento internazionale delle politiche economiche continui a migliorare. A livello mondiale sono da evitare aggiustamenti eccessivamente rapidi dei cambi, anche quando, come nel caso del Giappone, la direzione dell’aggiustamento è giustificata. A livello europeo vi è stato un salto di qualità nell’integrazione: non è stato un bello spettacolo vedere la faticosa messa in opera dei nuovi strumenti, dall’Esm (European stability mechanism) al Fiscal compact e alle altre misure in gestazione. Ma l’Europa, sia pure urlando e scalciando, è oggi "più Europa" di prima, e questa marcia in più deve essere confermata.
Secondo, c’è da augurarsi che in Cina continui senza scosse un doppio e delicato passaggio: da un lato, il traino della domanda estera deve essere affiancato, se non sostituito, dal traino della domanda interna; dall’altro, le legittime richieste di maggiore libertà politica e civile (spinte proprio dal successo delle libertà economiche) devono essere assorbite dal sistema politico in modo non traumatico.
Terzo (e più vicino a noi), la ricomposizione e il riposizionamento in corso delle forze politiche in Italia dovrà portare a formazioni di governo capaci di affrontare le sclerosi che hanno impedito all’economia italiana di tenere il passo in Europa e nel mondo.
Fabrizio Galimberti