Alessandro De Nicola, Affari&Finanza, la Repubblica 14/1/2013, 14 gennaio 2013
SULL’ALITALIA IL PIAVE MORMORAVA
Sabato scorso è scaduto il patto di lock-up che impegnava i soci di Alitalia a non vendere le loro quote per un periodo di quattro anni. Per la verità non siamo ancora in una fase di ’liberi tutti’: tra il 13 gennaio e il 28 ottobre 2013 il trasferimento delle azioni a terzi (Air France compresa) è possibile solo a condizione che gli altri soci italiani non abbiano esercitato il diritto di prelazione e che il trasferimento sia approvato dal cda di Alitalia. Ciò detto, il problema della nostra ex compagnia di bandiera si pone lo stesso. Nonostante l’efficienza di Alitalia sia aumentata nel corso degli anni, sia in termini di gestione dei costi che di servizi al passeggero, di rinnovamento della flotta e di puntualità (l’acronimo non significa più Always Late In Take-off, Always Late In Arrival), e nonostante un aumento dei ricavi, i risultati economici non arrivano. L’indebitamento ha raggiunto i 923 milioni di euro al 30 settembre 2012 e la liquidità residua alla stessa data era di circa trecento milioni.
Nei primi tre trimestri le perdite ammontavano a 171 milioni che si vanno a sommare a quelle degli anni precedenti (69 milioni nel 2011 e 168 milioni nel 2010). È facile capire che non passerà molto tempo prima di dover procedere ad una ricapitalizzazione oppure, Dio non voglia, ad una richiesta di ammissione ad una procedura concorsuale. Il mercato del trasporto aereo non è omogeneo. Benché si possa dire che il numero di passeggeri sia in costante aumento sia a livello mondiale che in Europa, non tutte le compagnie hanno i medesimi risultati. Quelle low-cost ben gestite possono avere margini di profitto molto interessanti (o fallire come WindJet); le tradizionali hanno molte più difficoltà. Negli Stati Uniti American Airways dopo 4 anni di bilanci in rosso sta fondendosi con US Airways, in Europa la fusione tra British Airways ed Iberia ha migliorato i conti della prima, ma la linea aerea spagnola soffre perdite enormi (268 milioni) ed è stato da poco annunciato un severissimo piano di ristrutturazione. Insomma, ogni giocatore deve far conto sulle sue forze e capacità imprenditoriali per sopravvivere, non ci sono scorciatoie. Un errore come quello di Alitalia di non avere saputo cogliere appieno la concorrenzialità che il treno ad alta velocità avrebbe comportato sulle tratte Milano-Roma-Napoli e Venezia- Roma, si paga caro. A questo punto, in una logica di pubblico interesse, cosa si dovrebbe fare per Alitalia? Poiché un buon modo di definirsi è per negazione, vediamo intanto cosa escludere. Niente politiche industriali all’amatriciana. In un’intervista di qualche mese fa, il sottosegretario ’tecnico’ ai Trasporti, Guido Improta, fece una serie di affermazioni preoccupanti, del tipo che il settore non poteva ’essere lasciato agli spiriti animali del libero mercato ma deve essere guidato da una visione politica attraverso un ruolo attivo e strategico del governo’. Tale ruolo si sarebbe esplicato incoraggiando una fusione Alitalia- Meridiana in modo che ’l’Italia sia dotata di un vettore unico di riferimento’. In altre parole, la teoria dei campioni nazionali. A ciò si aggiungerebbe una politica di programmazione dell’utilizzo degli aeroporti, sfavorendo Linate nei confronti di Malpensa, ad esempio, non perché a Linate non vi sia domanda, ma su diktat governativo. Peraltro, ipotizzava Improta, persino l’Antitrust, invece che seguire le fantasticherie sulla concorrenza dovrebbe sposare ’un disegno di politica industriale’. Quando riassegna gli slot di Linate, per dirne una, dovrebbe darli ad un soggetto unico in grado di fare massa critica e non spezzettarli a seconda delle offerte ricevute. Ecco, speriamo che a nessuno venga in mente di rinominare Improta nel prossimo Esecutivo. Niente salvataggi da furbetti. Inammissibile sarebbe una fusione tra FS e Alitalia, per la insufficiente sinergia di business, per il rischio di monopolio e per l’ulteriore spreco di denaro pubblico in questa tormentata vicenda già costata ai contribuenti ben 4 miliardi di euro. A maggior ragione, si eviti l’ingresso di Cdp. Non ha alcuna competenza specifica, né la vocazione ad essere la nuova Gepi. Evitiamo di cantare ’Il Piave mormorava’. Qui è il solito Berlusconi che vuole mantenere l’italianità della compagnia altrimenti i turisti andrebbero a visitare i castelli della Loira invece che in gondoleta. Al contrario, in una fase di consolidamento dell’industria dei trasporti aerei, se arriva uno straniero che compra ad un prezzo ritenuto congruo dagli attuali azionisti, facciamogli ponti d’oro. Gli investimenti esteri sono ridotti al lumicino in Italia ed in più le sinergie aziendali, purché decise da soggetti imprenditoriali e non dai burocrati governativi, potrebbero nel medio termine risanare Alitalia. Se poi si preserva la concorrenza, nel momento in cui lo stolido straniero acquirente volesse dirottare i viaggiatori sulla Senna invece che a Bari, ci penserebbero i concorrenti a portare i turisti nel Belpaese. Ma si sa che al Grande Mattatore di Arcore la parola ’concorrenza’ non é mai suonata bene. Infine, se si leggono i bilanci e le relazioni della società, i suoi amministratori continuano a manifestare ottimismo sulla riacquistata competitività della stessa. Potrebbe pure darsi che tutti o parte degli attuali soci continuino a crederci, investano altro denaro e perseguano una politica di alleanze o di maggiore integrazione con altre linee aeree. Tutte scelte legittime, a patto che non si attuino a spese dei contribuenti o dei consumatori.
adenicola@adamsmith.it