Alberto Bisin, la Repubblica 14/1/2013, 14 gennaio 2013
TAGLIARE LE TASSE È POSSIBILE
LA CRISI ha richiesto interventi fiscali di emergenza.
Nel medio periodo però, per tornare a crescere, sono necessarie liberalizzazioni profonde e una minore imposizione fiscale su famiglie e imprese. La riduzione delle imposte non può però essere finanziata a debito e richiede quindi una sostanziale riduzione della spesa pubblica. La maggior parte di politici ed osservatori sembra concordare con questa analisi in
linea di principio.
Ciononostante, le proposte di politica economica in campagna elettorale non sempre seguono coerentemente da essa. E allora il Pdl promette sì meno tasse ma irresponsabilmente, senza prevedere meno spesa; il Pd sembra favorire una imposta patrimoniale all’insegna della redistribuzione dei redditi; mentre Monti, dopo aver chiaramente privilegiato l’imposizione fiscale al taglio di spesa nel suo governo, ora propone un’agenda dalla quale traspare, anche grammaticalmente in qualificativi del tipo “se si tiene la rotta”, “non appena le condizioni generali lo consentiranno”, e via dicendo, una certa timidezza riguardo ad ogni supposta riduzione delle imposte. Di un programma economico coerente di riduzione delle imposte e della spesa si è dotato solo Fare per Fermate il Declino di Oscar Giannino, per ora senza intaccare però troppo il dibattito elettorale.
Inizio qui una discussione analitica e sistematica sugli obiettivi di riforma economica per la prossima legislatura. In questo articolo mi soffermo sulla questione di come ridurre l’imposizione fiscale, rimandando alle prossime settimane una discussione sulla spesa pubblica ed sull’implementazione di altri obiettivi economici di fondamentale importanza per il nostro paese.
L’Italia è caratterizzata da una pressione fiscale elevatissima, dell’ordine del 45%, ai massimi tra i paesi Ocse. Essa è cresciuta rapidamente, dal 30% del 1980 per almeno una decade, per poi assestarsi stabilmente
sopra il 40%. In particolare, sono cresciute le imposte sul reddito (il gettito Irpef) soprattutto come effetto dell’inflazione che ha automaticamente spostato i redditi nominali verso aliquote più alte. Questo processo, noto come
fiscal drag,
ha severamente colpito i redditi delle classi popolare e medie. Un contribuente con un reddito equivalente in termini reali a 10.000 euro oggi pagava una aliquota marginale pari al 16% nel 1980 e pari al 23% nel 2007. Allo stesso modo, un contribuente con un reddito equivalente a 30.000 euro ha visto l’aliquota crescere dal 25% al 38%. Questo processo ha compresso i salari netti e il reddito disponibile dei contribuenti fino a disincentivare notevolmente l’offerta di lavoro e anche l’accumulazione di capitale umano.
Dagli anni 90 in poi i vari governi che si sono succeduti hanno voluto al massimo operare misure di emergenza che mantenessero lo
status quo.
Queste misure sono state tipicamente misure impositive: patrimoniali, spesso sugli immobili, imposte indirette e contributi. Tra le nuove imposte va ricordata in particolare l’Irap (introdotta nel 1998), una imposta particolarmente iniqua e che disincentiva fortemente gli investimenti delle imprese perché ne colpisce i ricavi (non i profitti). Ne è risultata una crescita disordinata e incoerente del sistema impositivo pubblico.
Una riforma del sistema fiscale del nostro paese richiede ovvie razionalizzazioni, specie riguardo alle esenzioni e ai contributi sociali. Ma è soprattutto necessario ridurre in modo sostanziale l’Irpef per limitare gli
effetti distorsivi che questa imposta ha avuto ed ha sulle scelte di offerta di lavoro, particolarmente per i redditi medio-bassi, soprattutto nel caso di giovani e donne. (incentivi fiscali più mirati alla occupazione di giovani e donne sono possibili, in larga misura desiderabili, e verranno discussi in un articolo a seguire). Una riduzione drastica del cuneo fiscale, che incentivi l’occupazione e gli investimenti delle imprese, dovrebbe essere ottenuta anche attraverso la riduzione o meglio l’eliminazione dell’Irap.
Stime accurate degli effetti di un’ipotetica riforma che riduca permanentemente il cuneo fiscale che grava sul lavoro sono difficili e vanno interpretate con cautela. Ma una meta-analisi delle stime presenti nella letteratura economica suggerisce che una riduzione del cuneo alla media Ocse, cioè di 13 punti percentuali (dal 43% al 30%) potrebbe portare ad un aumento di oltre il 10% nelle ore totali lavorate, con un aumento del tasso di occupazione di 3-4 punti.
Se una riduzione delle imposte sui redditi medio-bassi è una necessità, non è affatto desiderabile trasferire la perdita di gettito che ne deriva sulle classi di reddito più elevate e sui patrimoni. Coerentemente col dettato costituzionale (art. 53) l’Italia ha infatti un sistema fiscale già fortemente progressivo: il 10% della popolazione con redditi più elevati contribuisce più del 50% del gettito d’imposta.
La patrimoniale, in particolare, è una imposta che per sua natura ha limitati effetti se di carattere emergenziale, ma tende invece a disincentivare fortemente
l’attività produttiva qualora le famiglie e le imprese ne anticipino un utilizzo relativamente sistematico in futuro. In altre parole, una patrimoniale ha un senso all’interno di un processo di riforma che tenda ad incidere fortemente sul bilancio riducendo la necessità di ricorrervi in futuro, cioè contestualmente ad una riduzione sostanziale e permanente della spesa pubblica. Sarebbe invece estremamente dannosa qualora essa fosse utilizzata come un meccanismo per evitare di incidere sulla spesa, per evitare al paese le necessarie riforme di spesa, “tassando i ricchi” come nella retorica purtroppo prevalente nel dibattito elettorale.
Senza dannose scorciatoie redistributive, e senza possibilità di accrescere il debito pubblico, ogni riforma fiscale deve essere valutata tenendo conto della necessaria corrispettiva riduzione della spesa pubblica. Ad esempio l’eliminazione del-l’Irap ed una riduzione di circa il 30% dell’Irpef, concentrata sui redditi medio bassi, produrrebbe un calo permanente (annuale) del gettito stimabile in circa 35 miliardi di euro. Argomenteremo nel prossimo articolo che tagli di spesa di quest’ordine di grandezza sono possibili e desiderabili (ma non indolore). Se anche si ritenesse desiderabile una politica redistributiva da associarsi alla riforma fiscale espansiva cui auspichiamo, sarebbe meglio farlo attraverso tagli di spesa che riducano l’accesso delle classi di reddito più elevato ai servizi pubblici che non attraverso una ulteriore pressione fiscale diretta o indiretta nei loro
confronti.