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 2013  gennaio 12 Sabato calendario

GRAZIE, MARIANGELA

[La Melato se n’è andata a 71 anni. 50 li ha passati in palcoscenico, assieme ai più grandi] –
Con la voce da maschio, le gambe da gazzella e l’erotismo straniante da panfilo in crociera o buio tinello nevrotico da dopolavoro, Mariangela Melato era la più moderna. La mitteleuropa nel cuore di Roma, dove a lunghe falcate, abbracciata alla storica amica di Flaiano, Brunella Parmesan, fendeva le notti con il profilo da regina e il giro rock di una Annie Lennox di Milano, figlia di una sartina e di un vigile urbano, persa nell’Urbe senza definizioni, orari, mète certe. Nel cognome aveva il perfetto anagramma del dubbio shakespeariano e in fondo agli occhi, azzurrissimi come il mare d’agosto, la consapevolezza del lusso toccato in sorte: “Mi è piaciuto un mestiere dove piango, rido e mi angoscio, ma comunque fingo”. Nella realtà meno elegiaca di qualunque copione, la fine non è nota né attesa e la divinità preferita da Fellini: “per metà extraterrestre e per metà egizia” ha preso la nave per non tornare più. Così, mentre a 71 anni, Mariangela migra in paradiso assieme a tutte le Lulù della sua vita, a noi rimangono i frammenti di una donna vera, capace di stare alla pari con chiunque, sfiorando l’alto e il basso senza farsi mai sporcare, con immutata leggiadria. Le grandi storie d’amore protette dalle fontane discrete di Piazza Navona. Gli inverni della gavetta come vetrinista alla Rinascente . L’iscrizione all’Accademia non appena superata la maggiore età. Il teatro in cui “recitare bambine preadolescenti o donne eterne di 337 anni, ruoli pazzeschi, incomparabili a quelli di vecchia zia pallida o madre incolore che mi offre il cinema italiano”. Parlava di oggi, Mariangela Melato. Dell’inesausto andirivieni da palcoscenico che nei giornali occupava il taglio basso, dell’indifferenza provocata da un voluttuoso, porcino abbrutimento, della tv, “di certa tv”, di cui nel 2009 proponeva il boicottaggio: “Perché nell’Italia di oggi, un paese di merda, è purtroppo l’unico mezzo a far accadere qualcosa. Se domani chiudessero gli stabili, la gente se ne accorgerebbe tra tre anni”. Dal grande schermo che pure, nei ’70, le offrì onori, ruoli indimenticabili, si sentiva lontana. L’avevamo accompagnata, lungo i crinali di un’indipendenza selvaggia, ragazza madre smarrita con la sua culla sul ciglio di un’autostrada in Caro Michele, o attorniata da uomini che lei sembrava capire più di loro stessi.
LE PARRUCCHIERE sfiorite aspettando Godot di fronte alle crisi dell’operaio Volonté, le Fiore fuggite da un destino segnato con Carmelo Mardocheo in Mimì Metallurgico e le novelle Robinson dal triplo cognome, le Raffaelle Pavone Lanzetta assediate dalla passione della fame nelle mille possibilità di un’isola. Che interpretasse la “bottana industriale”, la poliziotta di Steno a Ravedrate, capitale dei biscotti Brembani: “Solo per bambini sani” o la fidanzata insoddisfatta del delegato di fabbrica di Petri: “Una sera hai l’ulcera, una sera il mal di testa, una il maldischiena, tutte scuse, non c’hai mai voglia, mai voglia, sai cosa ti dico? Son stufa”, Mariangela (come tutti la chiamavano, per non confonderla con Monica, Monica Vitti, sorella gemella per fisiognomica e capacità), seguiva una sua strada. Non si piegava di fronte all’alienazione urlata a piena voce dai partner in crisi esistenziale e sull’orlo delle lacrime: “Sai cosa c’è? Che a me vien voglia solo al mattino, ma tu non sei mica in fabbrica, sei al negozio.
MA LO VUOI capire brutta porca maledetta che io per tirar su venti carte di più al mese mi faccio un culo così?” e sapeva prendere i treni perché decidere da soli è un’arte. Non c’erano fili di Arianna da seguire né labirinti da esplorare. Bisognava buttarsi al momento giusto, conquistare gli affetti in una mossa: Renzo Arbore, ieri affranto, ne fu rapito quando la vide ballare: “come una nera”, cogliere l’attimo fuggente, saper rispondere sì al momento giusto. Di fronte a Luchino Visconti che, severo come da memorialistica, assisteva al provino per La monaca di Monza: “Sembri una rana, ma hai due coglioni così, saresti disposta a tagliarti i capelli?”, la futura poliziotta Gianna Abbastanza si mise sull’attenti: “Mi taglierei anche i piedi, signor conte”. C’è un certo modo di non sembrare. Sempre . Un abito. Un’indole. Un manifesto da sventolare sugli autobus immaginati dal padre dei fratelli Vanzina, brulicanti di repressioni machiste in cui Mariangela sale con un cappottino rosso, subisce sguardi e attenzioni non richieste, reagisce: “Eh ma scusi, non si vergogna?” e davanti alla rivendicazione del molestatore, circondato da consenso e complici sghignazzi: “Ma cosa vuole? Io sono un padre di famiglia, sono uno che lavora, ma chi è che la tocca? Ma chi la conosce? Sporcacciona , prenda il taxi se le fa schifo il tram, ninfomane!” segue il consiglio, scende al volo per poi architettare una vendetta che la trascinerà in esilio. E ci sono occasioni da non sprecare nella solitudine di una scelta, per scudi-sciare l’indifferenza e assumersi responsabilità non pensando sempre, come i tennisti italiani trafitti da Nanni Moretti: “La colpa è di qualcun altro”.
DI QUESTO coraggio da prima linea, la Melato è stata ineguagliabile testimone. Sostando sulle rive di un palcoscenico: “La cosa peggiore che può capitare a un’attrice è il silenzio. Ce ne sono di due tipi. Quello partecipe che è meraviglioso. E quello assente. Atroce. Io li distinguo benissimo. Un signore, impaziente, ha guardato l’orologio. Avrei voluto saltargli addosso. Da quel momento ho recitato solo per lui: ogni urlo, ogni voce alzata di un tono, ogni sussurro era per lui”. Mariangela dormiva poco: “E se mi alzo incazzata faccio lunghe camminate”. Buonanotte Angelo in marcia. Scarpe rotte, eppur bisogna andar.