Antonio Gnoli, la Repubblica 13/1/2013, 13 gennaio 2013
Ettore Scola è tra i pochi registi che hanno saputo raccontare in maniera efficace questo paese. Lo ha fatto, soprattutto, con gli strumenti della commedia
Ettore Scola è tra i pochi registi che hanno saputo raccontare in maniera efficace questo paese. Lo ha fatto, soprattutto, con gli strumenti della commedia. Altri autori di talento hanno messo se stessi al centro di ogni film. Così è accaduto con l´immenso Fellini, Pasolini e perfino con Antonioni. E più recentemente Moretti. Ma ripensando a certi titoli - da C´eravamo tanto amati a Una giornata particolare - si immagina quest´uomo, spogliato del proprio Io, che mette al centro un´idea di "Noi", di comunità e, aggiungerei, con qualche necessaria cautela, di sinistra. Di una sinistra che oscilla tra gli ideali traditi e i pochi che ancora resistono: «Ma quella è un´altra epoca, un altro paesaggio: ieri nitido, oggi desolantemente annebbiato», commenta un po´ sconsolato il regista, che vado a trovare nella sua casa romana. Scola è un uomo schivo. Perfino un po´ spiazzato rispetto agli eventi di questi ultimi anni ai quali, forse con un pizzico di saggezza, ha preferito sottrarsi. Mi colpiscono gli occhi bonari, ma attraversati da una leggera tristezza. Un tutore al piede sinistro è il segno di un incidente, sul quale ha una teoria tutta sua: «Non è che si cade e la gamba si rompe. Avviene il contrario. Dopo una certa età il femore è come uno stelo di cristallo. Si spezza e si crolla a terra». La vecchiaia è così a rischio? «Lo è. Tutto diventa pesante e opaco. Mi colpiva la descrizione che Darwin fa, nell´Origine della specie, dei capitombolari. Sa cosa sono?». No. «Sono dei piccioni che ogni tre passettini cadono. Dopo una certa età diventiamo dei capitombolari». Non si butti troppo giù. «Fa dell´ironia?». Non potrei mai. Lei è una parte importante della storia culturale di questo paese. «Ci sono state in me molte vite professionali. Cominciai come giornalista nei periodici umoristici. Mi piaceva disegnare e portavo le mie vignette al Marc´Aurelio e al Travaso». Che umorismo era? «Molto legato agli accadimenti. Tutto quello che non era attuale veniva definito umorismo inglese e come tale bandito. Ho imparato molto sia sul senso del lavoro collettivo sia sull´importanza delle individualità. Da quelle testate erano passati Fellini, Mosca, Steinberg - che andò via dopo le leggi razziali - Maccari, Campanile, Zavattini, Steno, Age & Scarpelli. Fu una grande stagione». Di quali anni parliamo? «Era il 1946 e avevo solo 15 anni. In quel periodo vi era la certezza che nel nostro Paese tutto era possibile. In seguito non ho mai più provato la stessa intensa sensazione di libertà. Avevo anche cominciato a scrivere delle sceneggiature per Marchesi e Merz. Loro pagavano e si prendevano il merito». Un´ingiustizia. «Neanche tanto. Era una regola non scritta. Se volevi occuparti di cinema dovevi sottostare a un periodo di sfruttamento». E a lei il cinema piaceva. «Mi piaceva scriverlo. Venivamo da film inguardabili, quando giunsero in Italia le prime pellicole americane e francesi. Sono convinto che il cinema populista di Julien Duvivier e Marcel Carné fu alla base del nostro neorealismo. Restai folgorato da Ladri di biciclette e da Roma città aperta. Ma un film, allora un po´ trascurato, che mi colpì perché rappresentò una svolta, fu Una domenica di agosto». Forse il capolavoro di Luciano Emmer. Ma perché una svolta? «Con Emmer c´era Sergio Amidei che aveva già sceneggiato e prodotto Sciuscià, Ladri di biciclette, Roma città aperta. Insieme misero in scena un´Italia sghemba e sciamannata. Abitata da piccola gente che non aveva mai avuto nulla di rilevante e che diventava protagonista. Piccoli piaceri, infime storie. Fu una grande intuizione, l´esordio per la commedia all´italiana». Così come il suo C´eravamo tanto amati può considerarsi l´epilogo di quel genere. «Forse sì. O forse fu Brutti, sporchi e cattivi o La terrazza, come sostennero alcuni critici, a chiudere la commedia all´italiana». Ricordo che il Pci non gradì La terrazza. «Scoppiò un gran casino. Uno dei pochi che difese il film fu Antonio Tabucchi. Disse che in fondo rappresentava bene il mondo della cultura. Chi si imbufalì, dopo la proiezione, e mi rivolse un attacco violento fu Giancarlo Pajetta. Mi urlò contro che il film negava la Resistenza». In fondo, l´accusava di disfattismo ideologico. «Mi impressionò tantissimo. Ma erano uomini di altro stampo. Vedevano il cinema come uno strumento di emancipazione delle classi più umili. Volevano la pedagogia. Ricordo che Sandro Pertini, che amava assistere alle anteprime al Quirinale, si infuriò per La famiglia. Sostenne che il protagonista, Vittorio Gassman, era senza nerbo, un indeciso, privo di una vera istanza morale». Gassman interpretava un professore nevrotico. «Certo, io mi ero ispirato a Carlo Salinari che era stato mio insegnante. La verità è che i politici raramente amano le invasioni di campo». Prima di darsi alla regia lei è stato sceneggiatore. «Ho adorato il mestiere. Di tutti i film che ho scritto tre o quattro - come Un americano a Roma o Il sorpasso - li avrei diretti volentieri. Ma poi penso che uno dei lati che amo meno del cinema è la noia. Sul set mi sono spesso annoiato profondamente». Solo lì? «È una condizione più generale, certo. A volte vengo preso dall´impazienza, dall´inquietudine. L´Io si ribella alla stasi. Si guarda intorno». Prove tecniche di narcisismo? «Anche, perché no? Il problema è che se sei narciso e non vali un cazzo hai sprecato un´occasione. Mi ha divertito la lettura di una novella indiana su un fiume nel quale Narciso si specchia e si piace sempre di più. Ma poi alla fine è il fiume che rispecchiando Narciso si innamora di sé». Morale? «Il fiume per me è il cinema: la grande avventura che continua a rispecchiarsi nella sua storia, nel suo corso. E il regista ne è lo strumento consapevole». E l´attore? «Un animale molto insicuro. Più che di uno specchio ha bisogno di qualcuno che gli dica no: questo non fa ridere, questo è volgare, questo è sopra le righe». Ed esegue? «Quasi tutti eseguono. Perfino Gassman che aveva una forte personalità era pronto a negarla. Pensi a Monicelli che nei Soliti ignoti gli fa fare la parte del pugile suonato. E lui veniva dal Peer Gynt di Ibsen, come dire?, dalle vette della drammaticità». Scopre qualcosa che non pensava di avere. «È così. Il regista è anche un po´ una levatrice. Quando Rossellini affida ad Aldo Fabrizi la parte di un prete che diventa eroe della Resistenza chi può immaginare che un fisico così terragno possa offrire un´interpretazione così drammatica?». A proposito di Fabrizi viene in mente il palazzinaro senza scrupoli di C´eravamo tanto amati. E la battuta: "Io non moro". «Fu un modo per dire che a Roma la sola continuità storica è stata data dai costruttori». Attraverso i suoi film lei ha raccontato questo Paese. Crede che oggi ci sia qualcuno in grado di riprendere questo discorso? «La voglia credo ci sia nei più giovani. Manca l´occasione, la fiducia. Il cinema non è un´impresa solitaria. Il nostro cinema è stato grande tutte le volte che si è trovato in periodi difficili. E questo che attraversiamo è un momento terribile». E a lei non verrebbe voglia di raccontarlo? «Ho chiuso con il cinema diversi anni fa». Perché? «Ho ritenuto che fosse la scelta giusta. Quando Flaiano litigò con Fellini scrisse un articolo in cui si chiedeva a che età era opportuno uccidere un buon regista. Ennio era un uomo spiritoso e brillante. Ma non credo che ci sia un´età giusta. Semmai è giusta sempre. Bisogna uccidere un regista, ma anche uno scrittore, quando non è più felice di quello che fa». Quando ha smesso di amare il cinema? «Cinque o sei anni fa. È un mestiere bellissimo ma non lascia spazio per niente altro. Avevo perso di vista le cose che ho amato di più nella vita: leggere, disegnare, studiare. Mi venivano a prendere alle sei del mattino e rincasavo a mezzanotte. E poi avevo la sensazione che qualcosa nei conti non tornasse più». Cosa? «Non so chi ha detto che ogni regista fa un film di troppo. E allora basta non lavorare a quello. Chaplin, De Sica, Bergman - le cito i più grandi - sarebbe stato meglio se non avessero fatto il loro ultimo film. E poi conta l´età: ho 82 anni». Allude alla fatica fisica? «Più che fisica, psicologica. Cominci a sentirti escluso da un sacco di cose». Accennava prima al venir meno della felicità. «Intendo il bisogno di vivere con pienezza le situazioni. È la ragione per cui ho ripreso a studiare, leggere, disegnare». Un analista vi vedrebbe il bisogno di riprendersi la giovinezza. «Forse c´è anche questa illusione. Ma la verità è che tutto quello che faccio è fatto purché gratuito. Mi sono rimesso a studiare il greco. Ma non per uno scopo preciso. Solo per il piacere di farlo. Ero bravissimo in greco». C´è una punta di nostalgia. «Magari è solo presunzione. Ci vediamo diversi da com´eravamo». La memoria ci può tradire? «La memoria finisce con l´avere un valore solo se è inventata. Crediamo di avere dei ricordi, in realtà li creiamo. Non esiste la memoria autentica». Siamo un impasto di verità e finzione. Come del resto è il cinema. «Un tempo avremmo detto: realtà e fantasia. E da questo insieme che nascono le emozioni». A volte dà l´impressione di essere un uomo che ha rinunciato al cinema per paura delle sue emozioni. Paura di non essere all´altezza del "penultimo" film. «La paura è una componente. Ma non è la paura di non sentirmi più adeguato a quello che in passato ho realizzato, che mi ha fermato. Anche perché non mi sono mai chiesto, ogni qualvolta ho fatto qualcosa, quale sarebbe stato l´esito, come avrebbe reagito il pubblico. Semmai è la paura di non ritrovare più il proprio tempo che è sempre più corto». E come è stato il suo di tempo? «Tutto sommato fortunato. Ho avuto ai miei inizi due grandi regali: il lavoro con gli altri e un nonno cieco che mi obbligava a leggergli quello che lui da giovane aveva letto. Cioè i capolavori della letteratura francese. Spesso non capivo e arrancavo davanti a questo strano "Omero". Ma mi è servito. Ho imparato ad amare i libri. Oggi mi sorprendo a volte a spostarli nella mia biblioteca». Perché? «Perché c´è un ordine segreto. I libri non puoi metterli a caso. L´altro giorno ho riposto Cervantes accanto a Tolstoj. E ho pensato: se vicino ad Anna Karenina c´è Don Chisciotte, di sicuro quest´ultimo farà di tutto per salvarla». E Darwin dove lo metterebbe? «Vicino a Marx. I due sono fatti per intendersi». Mi tolga una curiosità: davvero Darwin ha parlato dei capitombolari? «Parola di regista».