Antonio Salvati, La Stampa 12/1/2013, 12 gennaio 2013
Altro che Babele. Basta fare due passi e il coniglio diventa lapin, la quercia si trasforma in ròl, il gioco muta in bot
Altro che Babele. Basta fare due passi e il coniglio diventa lapin, la quercia si trasforma in ròl, il gioco muta in bot. È l’Italia dei dialetti, universo moltiplicato che adesso trova la sua giornata nazionale: giovedì 17 gennaio, per la prima volta, le lingue locali vengono celebrate in un progetto unico, dalle montagne fino al mare. A proporre l’iniziativa è l’Unione nazionale delle Pro loco, che ha provato a riunire lungo un filo unico tante realtà lontane nello spazio e nella parola, a metà strada tra l’orgoglio linguistico e la voglia di guardare a una mondo che traballa. «L’obiettivo – spiega Gabriele Desiderio dell’Umpli - è salvaguardare un’espressione diretta delle comunità locali, insieme a tutta quella cultura che il dialetto veicola. Vedendo come la trasmissione di generazione in generazione sia venuta meno, vogliamo lanciare un segnale d’allarme su un patrimonio culturale che potrebbe andare perso». Tra un declino ormai pluridecennale e nuove cellule di resistenza, che cosa si rischia di lasciare per strada? «Il problema – spiega Tullio Telmon, dialettologo e già presidente della Società di linguistica italiana – è che spesso con le lingue locali scompaiono culture e saperi tradizionali, competenze che da sempre erano tramandate insieme a una parlata specifica. Se ne vanno nomi, toponimi, lemmi che non è più possibile immaginare, perché coinvolgono mondi interi». Le lingue nascono, crescono, muoiono. Nel calderone linguistico italiano, dove la lingua standard è più una teoria che una realtà, la maggioranza delle persone affianca l’italiano a parlate locali: secondo l’Istat (l’ultima ricerca su scala nazionale è del 2006), la percentuale di chi usa in famiglia anche lingue diverse dall’italiano supera il 50% della popolazione (il 16% è composto da chi lo utilizza solo come seconda scelta). Per tanti l’antenato è il latino, ma da Sud a Nord si incontrano radici innestate su parlate albanesi, croate, grecaniche, tedesche. Ma è meglio parlare di dialetti o di lingue locali? «Dal punto di vista linguistico – dice Telmon - le due definizioni sono sinonimi. Io preferisco parlare di lingue locali perché la parola “dialetto” è stata connotata negativamente: fino a vent’anni fa il suo uso era sentito come marca di inferiorità sociale, proprio perché l’italiano non era posseduto. Quanto tutti hanno imparato la lingua nazionale, invece, quella locale è diventata un valore aggiunto». Avventurarsi tra le diverse famiglie è questione spinosa. I confini (quando ci sono) sono labili e raccontano di continui scambi e contaminazioni. Una prima suddivisione è quella che separa, su una linea ideale che unisce La Spezia a Rimini, i dialetti settentrionali da quelli meridionali: la distinzione è quella tra Romània latinizzata occidentale e orientale, che taglia l’Italia (e l’Europa) i due e che si frammenta in una pluralità di declinazioni: dal salentino al franco provenzale e dal siciliano al ladino, l’equilibrio instabile delle lingue si trasforma in battaglia quando le parole diventano l’arma di nazionalismi più o meno grandi, accentratori o centrifughi. Con tentativi a volte forzati di arrivare dove l’ambiente familiare non agisce più. «La mia impressione – continua Telmon – è che tutte le azioni artificiose di trasmissione delle lingue locali siano destinate a lasciare il tempo che trovano. Il percorso è stato sempre quello della mamma o del papà che parla al proprio figlio. L’apprendimento è sempre il benvenuto: ma il percorso dell’imparare la lingua materna è un percorso irripetibile». In una società che porta al corto circuito le identità locali e quelle globali, però, c’è un percorso che rimane vincente. O l’alternativa è la lingua unica, quella che Leopardi definiva «per sua natura brutta, uno scheletro, un’ombra di lingua»? «È l’inganno dell’inglese: ci sono genitori che, illusi dal paradigma della modernità, insegnano la lingua di maggiore diffusione. La soluzione, invece, è il plurilinguismo. C’è stato un secolo di educazione linguistica sbagliata, quando si era convinti che insegnare comelinguamaterna una lingua locale significasse impedire al bambino di imparare l’italiano. Ma l’apprendimento non funziona per sottrazione: specie fino a dieci‘ anni, i piccoli possono imparare senza problemi due, tre, anche cinque lingue diverse».