Luca Fazzo, il Giornale 11/1/2013, 11 gennaio 2013
Come è possibile che una fotocopiatrice inceppata faccia scarcerare dei boss condannati a decenni di carcere? Come è possibile che il gigantesco meccanismo che sta dietro una inchiesta per criminalità organizzata vada a schiantarsi contro il più banale degli incidenti? Solo stamattina si capirà quale conseguenza concreta avrà sul processo «Infinito» la sentenza della Cassazione che mercoledì sera ha annullato le condanne inflitte in primo grado
Come è possibile che una fotocopiatrice inceppata faccia scarcerare dei boss condannati a decenni di carcere? Come è possibile che il gigantesco meccanismo che sta dietro una inchiesta per criminalità organizzata vada a schiantarsi contro il più banale degli incidenti? Solo stamattina si capirà quale conseguenza concreta avrà sul processo «Infinito» la sentenza della Cassazione che mercoledì sera ha annullato le condanne inflitte in primo grado. Ma la lettura del dispositivo - «annulla senza rinvio» - vuol dire che non ci sarà un nuovo processo. Sulla carta, quindi, a meno che la Corte d’appello milanese escogiti qualcosa, l’impatto potrebbe essere devastante. Gli avvocati stamattina si preparano a chiedere l’azzeramento dell’intero processo e la scarcerazione di tutti gli imputata. E la vicenda, se appena la si analizza, costringe a interrogarsi su alcune macroscopiche storture del sistema giudiziario: che alla fine riversa sulle spalle di un singolo magistrato la responsabilità di tirare le fila di processi giganteschi, dove decine di investigatori e tre o quattro pubblici ministeri hanno scavato su centinaia di persone. Un apparato investigativo così vasto da risultare alla fine impersonale. Ma alla fine, in totale solitudine, a decidere è un uomo solo. Già quando si ritirò in camera di consiglio, nel novembre del 2011, si era intuito che Roberto Arnaldi, giudice preliminare presso il tribunale di Milano, rischiava di restare stritolato dalla mole del processo. Era stata fissata l’udienza per la lettura della sentenza contro i centodieci imputati. Ma il giudice non si presentò. Per un giorno e una notte, chiuso nella sua stanza, Arnaldi cercava senza riuscirci di tirare le fila dell’inchiesta che per la prima volta, sotto la guida del procuratore aggiunto Ilda Boccassini (nella foto), aveva individuato una struttura di vertice della ’ndrangheta in Lombardia: non più magma di realtà autonome, ma struttura piramidale non dissimile da Cosa Nostra. Nella sterminata inchiesta del Ros e dei carabinieri di Monza - un milione e mezzo di contatti telefonici intercettati, tanto per dare un’idea - si ricostruiva non solo l’attività della Cupola ma anche delle strutture di base dei clan calabresi, i «locali» sparsi sul territorio. Mentre a Palazzo di giustizia tribunali composti da tre giudici si occupavano annoiati di questioni da quattro soldi, il giudice Arnaldi affrontava il Moloch in solitudine. Alla fine, dopo trentadue ore, il giudice riuscì a pronunciare la sentenza. Centodieci condanne, oltre mille anni di carcere. Arnaldi uscì provato da quella camera di consiglio. E non è finita. Restano da scrivere le motivazioni. Anche qui, il compito si rivela gigantesco. Invece dei novanta giorni previsti dal codice, il giudice ci mette più di sei mesi. Anche stavolta, in totale solitudine. E nella stanchezza e nella solitudine sta probabilmente la spiegazione anche di quanto accade l’1 giugno dell’anno scorso, al momento del deposito. Nelle 950 pagine della sentenza di Arnaldi ne mancano 120. Interi capi d’accusa, l’attività di interi «locali», sono spariti. Colpa della stampante inceppata. Ma il giudice non se ne accorge. Più del controllo meticoloso, della rilettura accurata, a quel punto conta la fretta di depositare il provvedimento: per evitare che scadano i termini di carcere preventivo, che i condannati escano. E che il giudice finisca sotto procedimento disciplinare: come il suo collega Edi Pinatto, pm, espulso dalla magistratura per avere depositato fuori tempo massimo le motivazioni di un maxiprocesso. L’1 giugno Arnaldi deposita in cancelleria la sentenza «monca». Poi si accorge del disastro combinato. Il 4 giugno, deposita in cancelleria anche le pagine mancanti. Ma ormai il danno è fatto. Tre avvocati chiedono alla Cassazione di annullare tutto per vizio di forma. Sembra una cavilleria come tante. Invece mercoledì la Suprema Corte esamina la sentenza, il ricorso, le norme: e stabilisce che non c’è via d’uscita.