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 2013  gennaio 11 Venerdì calendario

AMARTYA SEN – CON OBAMA PIÙ FORTE QEST’AMERICA DIVISA ADESSO È GOVERNABILE


È l’uomo che ha coniugato il concetto di crescita a quello di equità. Il primo ad aver messo l’accento sulla parola democrazia quando spiegava una dottrina economica. Uno dei pochi nel suo campo che riesce ad appassionare e spesso a divertire, come dimostrano i video delle sue conferenze milioni di persone, che seguono passo passo i suoi interventi e riempiono le aule delle università e i teatri come per una rockstar.
L’«idealista concreto», come viene naturale chiamare il premio Nobel per l’Economia Amartya Sen, è una persona che non ama apparire. Indiano di nascita, americano di adozione (grazie ai suoi lunghi anni di docenza a Harvard), italiano almeno in parte, perché nel nostro Paese torna ogni anno per le sue vacanze, se accetta di fare questa chiacchierata è perché, come disse una volta, le nuove sfide lo hanno sempre appassionato: e vedere quel semisconosciuto senatore afro-americano, che per la prima volta attrasse la sua attenzione anni fa, prestare giuramento per la seconda volta come presidente degli Stati Uniti in un momento di grave difficoltà economica, una sfida lo è di certo.
Professor Sen, inizia fra pochi giorni, il 20 gennaio, il secondo mandato di Barack Obama alla guida degli Stati Uniti. Crede che sarà molto diverso dal primo?
«Non potrà che esserlo. Il voto di novembre ha dimostrato che le posizioni di Obama hanno più presa fra la gente di quelle di un partito, come quello Repubblicano oggi, dominato dal Tea Party. Alle urne candidati del Tea Party hanno avuto pessimi risultati. Mentre fra i senatori eletti ci sono molte più donne di prima, soprattutto fra i democratici: donne forti, come Elizabeth Warren qui in Massachusetts, che si oppongono a politiche molto conservatrici. Obama ha oggi un mandato per governare migliore di quello che aveva in passato perché il Congresso è spostato meno a destra rispetto al 2010».
Quindi prevede che vedremo un presidente più deciso e sicuro di sé?
«Francamente, me lo auguro. Di certo, vedremo un presidente che ha imparato molto dagli anni alla Casa Bianca, e non può non essere così. Io spero che Obama abbia capito che non sempre fare compromessi con i repubblicani paga: perché non sempre sono davvero disposti a raggiungere un accordo. Credo che il presidente debba restare più fermo sulle sue posizioni rispetto a quello che ha fatto in passato. Ha il mandato per farlo, la gente lo ha votato per questo. Ed è davvero importante che lo faccia, se vuole che il secondo mandato sia un successo: oggi questa è una nazione con molte priorità diverse, solo un leader deciso riuscirà a dare risposte».
Ma questo non gli alienerà parte del Paese? Il voto dello scorso novembre ha mostrato un’America spaccata a metà, che non si parla. Poi le discussioni sul fiscal cliff hanno confermato questa impressione...
«Non ci sono due Americhe, ce ne sono molte di più. La composizione etnica della nazione sta cambiando, ci sono meno bianchi e sempre più afroamericani, latini e asiatici. Questi settori della società vogliono più cambiamenti rispetto ai bianchi e per questo in maggioranza hanno appoggiato Obama. E non ci sono solo le divisioni etniche: il Paese è spaccato anche sulle questioni sociali, sull’aborto, sui contraccettivi e su tanti altri temi. Certo, Obama non può avere il consenso di tutti: ma è riuscito a mettere d’accordo molte persone sulla sua agenda per il futuro. In campagna elettorale ha costruito una sorta di «coalizione arcobaleno» che è servita per vincere le elezioni; ora spero continuerà a usare la sua capacità di mettere insieme diversi gruppi per arrivare a politiche costruttive».
È anche vero che, a certi livelli, non c’è capacità di aggregazione che conti. Come dimostra il braccio di ferro con i repubblicani sul fiscal cliff, talvolta lo scontro è inevitabile.
«È chiaro. Di scontri ce ne sono stati e ce ne saranno. E Obama sa che, nel breve periodo, deve necessariamente scendere a compromessi. Deve fare accordi che passino al Senato, dove i democratici hanno la maggioranza, ma anche alla Camera, che invece è in mano ai repubblicani. Mi auguro solo che per il futuro il presidente non conceda troppo: parlando di fiscal cliff, da economista dico che è per il bene di tutti che le tasse dei ricchi in America devono salire. Anche se i repubblicani non sono d’accordo».
Pensa che riuscirà davvero ad evitare troppi compromessi?
«Ha buone possibilità. Nel suo braccio di ferro con i repubblicani, ha giocato due carte: la prima, l’avere spiegato che senza un accordo le tasse di tutti sarebbero salite. La seconda, fondamentale: il risultato delle elezioni, un risultato che dice chiaramente che per la maggioranza degli americani i ricchi devono pagare di più. Obama ha agito di conseguenza».
Si parla già delle prossime elezioni e del ritorno delle due grandi dinastie che hanno dominato la politica americana degli ultimi vent’anni, i Bush e i Clinton. Che democrazia è quella che si affida alle dinastie, ai loro soldi e alla loro fama?
«Anche in America i soldi contano molto, soprattutto in politica, e non sempre hanno un influsso positivo, anzi. Eppure, i miliardi di dollari investiti nelle ultime elezioni non sono riusciti a influenzare più di tanto il risultato, e questo dà speranza. Per quanto riguarda la fama, non c’è modo di tenerla fuori da un discorso sulla politica e sulle elezioni. Solo in un mondo di pura immaginazione la fama non ha influenza sulle decisioni delle persone. E, francamente, non vedo motivo per cui non dovrebbe contare, se ben guadagnata. Prendiamo Hillary Clinton: ha fatto un eccellente lavoro come segretario di Stato, questo le ha dato il "tipo giusto" di fama e l’ha resa un candidato naturale alla presidenza nel 2016. E, mi sembra, anche del tutto appropriato».