Salvatore Tropea, il Venerdì 11/1/2013, 11 gennaio 2013
VEZZI E VIRTÙ DI UN INGUARIBILE SCETTICO BLU
[intervista a Franzo Grande Stevens su Gianni Agnelli]
TORINO. «Quando veniva qui si fermava davanti a quella finestra a guardare l’obelisco di piazza Savoia, quell’imponente monumento in pietra di Baveno eretto nel 1853 per celebrare le leggi Siccardi che tre anni prima avevano abolito il foro ecclesiastico, sollevando l’ira dei preti. E allora il discorso scivolava sul tema del Risorgimento, argomento che lui amava, da settentrionale sabaudo che però mostrava particolare interesse per gli intellettuali meridionali approdati a Torino e di cui gli piaceva sapere tutto, più di quanto il suo ruolo lasciasse immaginare». Magari alternando i discorsi su Cavour ai sofisticati meccanismi finanziari dell’Accomandita, la società appositamente creata per blindare il controllo della Fiat da parte della sua famiglia.
«Proprio così. E fui io a costruire quel meccanismo che assicurava una continuità che dura ancora oggi, attraverso una sorta di cooptazione illuminata».
Dieci anni dopo la morte di Gianni Agnelli, la voce narrante che lo ricorda è quella di Franzo Grande Stevens, signore elegante e di bel portamento a dispetto dei suoi 84 anni, una leggera inflessione napoletana a conferma delle sue origini partenopee, nipote del colonnello Stevens, speaker di Radio Londra, laurea in Giurisprudenza, sin dagli anni Cinquanta nello studio torinese di Manlio Brosio e Dante Livio Bianco, maestri Piero Calamandrei, Ferruccio Parri e rapporti con gli intellettuali «di un tempo irrimediabilmente tramontato» come Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone, Franco Antonicelli.
Lo studio Grande Stevens è nel cuore di Torino, quarto piano di un palazzo storico, ascensori silenziosi, corridoi e sale tappezzati di libri e stampe d’epoca, boiserie scura in stile anglosassone. Su un tavolo il busto di Fulvio Croce, presidente degli avvocati torinesi ucciso dalle Brigate Rosse negli anni di piombo. E poi tante fotografie incorniciate in argento e sistemate senza un ordine apparente sulle mensole. Almeno in un paio si vede lui assieme a Gianni Agnelli (ma c’è anche Umberto).
Per parlare dell’ultimo presidente della Fiat di cognome Agnelli, tra la storia che sopravvive alla storia e la contemporaneità che si consuma implacabilmente, questo è il posto giusto. E Franzo Grande Stevens – l’avvocato dell’Avvocato che per mezzo secolo è stato il nume tutelare del «gruppo di famiglia» con ruoli diversi e importanti, dalla Fiat a Exor alla Juventus, impegnato a costruire moderni meccanismi societari in qualche caso con ardite chirurgie azionarie – è la persona giusta.
Fellini disse: «Mettetelo a cavallo, è un re». Altri che lo hanno frequentato lo hanno descritto come colto, moderno, curioso, ma anche cinico e annoiato, forse condannato alla solitudine. Ma, per lei, avvocato Grande Stevens, chi era realmente Gianni Agnelli?
«Era sicuramente un uomo fuori dal comune, a suo modo eccezionale, pieno di interessi e di curiosità. Cinico? Diciamo che non se la beveva e non si preoccupava neppure di dimostrare il contrario. Annoiato? Sicuramente non amava la banalità dalla quale prendeva le distanze e lo faceva mostrando per molte cose un tenace interesse, diverso dalla comune e superficiale curiosità. Alimentava questo interesse leggendo di tutto. Aveva avuto come maestro Franco Antonicelli, che gli aveva trasmesso il gusto di selezionare tra gli intellettuali. Per certi versi penso che gli sarebbe piaciuto Sergio Marchionne, un uomo che guida la Fiat, ma parla di Hegel, Machiavelli e Voltaire».
E la solitudine?
«Non credo, non mi è parso. Forse in vecchiaia».
Un allievo di Antonicelli che trovava il tempo anche per le belle donne.
«Che gli piacessero le belle donne è risaputo. Era quasi naturale, dopo tutto lui era un bell’uomo. E del resto non ha mai negato di essere stato un marito devoto, ma non del tutto fedele. Il resto lo hanno fatto i tabloid soprattutto con riferimento agli anni della sua gioventù. Forse anche qualche signora che ha detto più di quello che ha fatto».
Nella vita privata, per esempio nella quiete di Villa Frescot sulla collina torinese, che persona era?
«Non amava le cose abituali e aveva gli scarti tipici di coloro che non sopportano la routine. Lui faceva di tutto per evitarla, inventandosi una partenza improvvisa per New York o per Sainct Moritz. Oppure poteva accadere che, mentre si atterrava a Torino col suo aereo, chiedesse di venire a casa mia per vedere la collezione di maioliche. Tutto tranne che la monotonia».
Il suicidio del figlio Edoardo fu un brutto colpo: ricorda come reagì?
«Con i figli non fu fortunato. Edoardo fu per lui una delusione. Lo sentiva debole, manipolabile, inadeguato al ruolo che avrebbe dovuto e potuto assumere. Da sempre lui contava di poter scegliere il successore, un leader al quale affidare il gruppo di famiglia. E non ebbe fortuna neppure con Giovannino, il figlio di Umberto, morto giovanissimo dopo l’investitura. Si rifece poi con John, il nipote figlio di Margherita oggi presidente della Fiat. Negli ultimi anni della sua vita con John ricostruì il rapporto che c’era stato tra lui e il nonno fondatore della Fiat».
C’era uno stile-Agnelli? La cravatta sul pullover, l’orologio sul polsino...
«Io non credo che fossero cose da lui ricercate, volute. Comunque non ne abbiamo mai parlato. Magari ne discuteva con Montezemolo».
Che cosa era per lui la Juventus di cui lei è stato per qualche anno presidente?
«Una sorta di giocattolo sfizioso. Era un modo come un altro di fare squadra e di farlo fuori dall’ordinario. Questo spiega perché, quando avvistava un calciatore eccezionale, faceva di tutto per farlo venire a Torino e spesso ci riusciva. Era un altro modo di stare fuori dalle righe. I fuoriclasse che lui arruolava dovevano essere eccezionali, come i suoi amici, dall’Aga Khan a Kissinger».
Quanto ha contato per lui la nomina a senatore a vita?
«Non lo so. Non credo che avesse un particolare interesse per le cose della politica. Lo interessava di più la storia. Poteva essere affascinato dall’idea geniale che aveva consigliato a Napoleone di schierare le truppe in un certo modo in una battaglia più di quanto non avrebbe saputo fare per un’alleanza di governo. Forse perché era stato ufficiale di cavalleria. Tra gli uomini politici, Ugo La Malfa lo convinceva, il resto faceva parte di rapporti istituzionali. Era un laico democratico che apprezzava le persone portate a privilegiare gli interessi generali rispetto a quelli privati».
E quale sarebbe stato il suo giudizio sui protagonisti politici degli ultimi anni? È vero che con Berlusconi non ha mai avuto un buon rapporto?
«Non ci avrebbe riso, anzi si sarebbe indignato. Era molto attento al rischio del ridicolo. Non avrebbe legato con la modestia di questa gente. Quanto a Berlusconi, non lo ammirava, lo percepiva come una persona lontana dal suo sentire. Del resto, avrebbe potuto essere diversamente per una persona che aveva voluto conoscere Gaetano Salvemini?».
I rapporti con il fratello Umberto?
«Pensava che potesse essere il capofamiglia. A Umberto, che gli sopravvisse appena un anno, piaceva occuparsi di gestione. Lui non è stato mai un manager. Detto questo, l’Avvocato era una figura ingombrante».
Ma gli si poteva dire di no? Le è mai capitato di doverlo fare?
«Mi è capitato di dovergli consigliare in qualche occasione di non fare determinate scelte. Bastava ragionarci e convincerlo. Lui chiedeva di trovare delle soluzioni ai problemi e quando si trovavano le accettava. Si fidava».
Della Fiat di oggi che cosa avrebbe detto?
«Sarebbe stato soddisfatto perché Sergio Marchionne ha salvato il Gruppo in un momento estremamente difficile».
Insomma l’ultimo patriarca di famiglia in un capitalismo finito col Novecento?
«Proprio così. Tutti lo consideravano tale, dentro la famiglia e fuori. È stato un capo indiscusso e penso che continuerà a essere considerato tale anche quando saranno passati molti più di dieci anni dalla sua morte».
Salvatore Tropea