Enrico Deaglio, il Venerdì 11/1/2013, 11 gennaio 2013
SONO SOLO DIECI ANNI. EPPURE, DAI TEMPI DELL’AVVOCATO L’ITALIA È UN’ALTRA COSA…
ERANO appena dieci anni fa, ma il filmato di quella morte e di quel funerale sembra appartenere a un’Italia diversa. Il «Re» era morto e Torino era accorsa a vederlo sulla sommità del Lingotto; vicino al feretro, dove la famiglia dava la mano a tutti, erano poste bene in vista le corone della Fiom e della Cgil. Davanti al Duomo, dove, la folla si era ammassata per l’ultima cerimonia, una bordata di fischi aveva accolto il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, che si era presentato a bordo di una Mercedes. Dentro la chiesa, il cardinale Severino Poletto non lo aveva nominato tra le autorità presenti (gli segnalarono la gaffe all’orecchio, e si corresse chiamandolo però Berluscone).
Lo stabilimento di Mirafiori, un tempo il più grande d’Europa, allora ancora funzionava e Sergio Marchionne era uno sconosciuto finanziere italocanadese... Dieci anni dopo, Re a Torino non ce ne sono più, automobili dalle catene di montaggio ne escono sempre meno; le decisioni sul futuro della Fiat si prendono in Svizzera o a Detroit; i locali dove la Fiom teneva i suoi uffici dentro le fabbriche sono stati fatti sgombrare; ma questo non è bastato a Marchionne, che considera troppo costoso produrre macchine in Italia. E non sente particolari obblighi a rimanere; un obbligo che, invece, Gianni Agnelli sentiva.
Gianni Agnelli (l’Avvocato) è stato, in Italia, un personaggio irripetibile. Rampollo di una giovane dinastia industriale cresciuta nella città sabauda, adolescente con il fascismo, che aveva fatto suo nonno ricco e senatore (ma educato in casa da professori antifascisti), tenente del Regio Esercito e poi a 23 anni ufficiale di collegamento tra il Cln e l’esercito alleato, principale «erede» del colosso industriale uscito quasi indenne dalla guerra, ebbe dalla famiglia il permesso di «godersi un po’ la vita», prima di assumere responsabilità nella gestione della Fiat, cresciuta nelle mani dure, ma moderne, del ragionier Vittorio Valletta, che aveva portato in Italia i metodi di Henry Ford.
Quando Agnelli finì (ma non la finì mai, in realtà) di godersi la vita e prese ad andare in ufficio ogni mattina, aveva 40 anni, era un membro del jet set internazionale, appassionato di pittura, belle donne e sociologia. Di automobili sapeva poco, però era seducente. Quando si trattò di vendere agli svedesi della Skf la Riv, fabbrica di cuscinetti a sfera, non sapendo bene cosa fossero i cuscinetti a sfera, spiegò loro che erano una cosa pregiatissima, e che un’automobile senza di loro era come un risotto senza tartufi. Come è noto, a quei tempi la Fiat era l’Italia. Si diceva «Torino propone e Roma dispone»; oppure «Quelli che... lavoriamo tutti per Agnelli»; o ancora, con Rino Gaetano: «Giovanni Agnelli, Umberto Agnelli, Susanna Agnelli... nun te regghe cchiù» e tutte tre le cose erano sostanzialmente vere.
Il miracolo italiano era stato fatto con le vetturette, le autostrade, i concessionari Fiat, le vendite a rate Fiat, le assicurazioni Fiat; i figli dei dipendenti avevano le colonie estive; la Juventus faceva giocare calciatori terroni per avere il consenso delle masse di operai immigrati; gli operai (quando ancora non esisteva l’Inam) avevano la mutua aziendale Malf, da tutti definita ottima.
In politica Gianni Agnelli era repubblicano (il piccolo partito europeista del suo amico Ugo La Malfa), ma teneva ottimi rapporti con la Dc, tanto che suo fratello Umberto ne divenne senatore. Nel famoso autunno caldo del 1969, quando la Fiat scoprì improvvisamente la sua fragilità di fronte agli scioperi, e quanto fossero inumane le condizioni di lavoro nelle sue officine, Agnelli fu (più per convenienza che per convinzione) tra gli industriali progressisti. Il contratto collettivo di lavoro dei metalmeccanici (quello per cui un operaio specializzato di Torino e un neo assunto di Termini Imerese avevano in busta paga lo stesso salario base, gli stessi obblighi e gli stessi diritti) venne firmato all’indomani delle bombe di piazza Fontana. Pochi anni dopo, nominato presidente di Confindustria, Agnelli firmò un altro provvedimento molto di sinistra, secondo il quale all’aumento del costo della vita corrispondeva un automatico adeguamento dei salari, e di nuovo, uguale per tutti; in quella occasione fece l’accordo con il segretario generale della Cgil, Luciano Lama, di cui divenne (quasi) amico. Rispose alla grande crisi petrolifera degli anni Settanta vendendo il 16 per cento del capitale al colonnello Gheddafi (mossa scandalosa che gli sarebbe costata, pochi anni dopo, il mercato americano). Ottenne dallo Stato condizioni di favore, finanziamenti agli investimenti, ammortizzatori sociali, e le commesse garantite: a quei tempi le auto blu erano tutte Fiat, come lo erano le auto della polizia, le ambulanze, i pullman cittadini, i camion, i trattori e le jeep dell’esercito. La Fiat di Gianni Agnelli era nello stesso tempo la più grande azienda privata italiana e il più grande monopolio di Stato.
Ogni fine anno Enzo Biagi lo intervistava e l’Avvocato sfoggiava numeri, statistiche, ricordava che se Torino si prende il raffreddore, I’Italia si ammala e buttava lì qualche buona battuta. (Era notoriamente spiritoso, Agnelli. Per esempio: «Se a Torino votano comunista, io capisco: sono operai e odiano il padrone che li sfrutta. Se a Napoli votano comunista, capisco: sono disoccupati e vogliono il lavoro. Ma a Roma... Perché a Roma votano per il Partito comunista?»).
Lo choc avvenne nel 1980, quando l’amministratore delegato Cesare Romiti decise il licenziamento di trentamila operai, da lui descritti alla stregua di parassiti, quando non di simpatizzanti del terrorismo. Lo stabilimento di Mirafiori venne occupato per 35 giorni, il segretario del Pci Berlinguer portò l’appoggio del partito, ma tutto finì con un corteo di capireparto e impiegati («Vogliamo lavorare»), che convinse i sindacati a cedere immediatamente le armi (una sconfitta dalla quale non si sarebbero mai più sollevati). Agnelli, e soprattutto Romiti, avevano indossato la faccia dura, ma questo nuovo atteggiamento non servì a raddrizzare i conti dell’azienda che, anzi, in pochi anni precipitò in un disastro industriale. Il mondo, semplicemente, era cambiato: i consumatori ormai potevano scegliere l’automobile da comprare e quelle Fiat erano brutte. Furono tentati accordi internazionali, prima con Citroën, poi con Ford e infine con General Motors, ma tutti fallirono. Dopo Romiti si succedettero alla guida della Fiat, Paolo Fresco, proveniente dalla General Electric, il fratello Umberto Agnelli (morto nel 2004), Luca Cordero di Montezemolo, Giuseppe Morchio, fino all’arrivo di Sergio Marchionne nel 2004.
Gianni Agnelli fu un uomo della prima Repubblica, king maker di un’Italia nata molto povera, ma in cui la vocazione industriale venne coltivata. La Fiat era sicuramente il suo emblema più conosciuto, negli anni Settanta presente in quattro continenti con uno stabilimento addirittura in comune con l’Urss costruito nella città di Togliattigrad ed enormi impianti in Argentina e in Brasile. L’Italia era però il cortile di casa, e scoprirlo invaso fu il segno della perdita del suo potere. In più, nella famiglia reale, nessuno sembrava particolarmente interessato ad acciai e pistoni, ma tutti ad intascare le cedole; l’unico figlio maschio, Edoardo (suicidatosi nel 2000), aveva addirittura manifestato la speranza che Mirafiori diventasse un enorme giardino di rose. (Convertitosi all’Islam, Edoardo Agnelli divenne un mito per il governo di Teheran che sostenne che il giovane aveva promesso le sue azioni Fiat all’ayatollah Khomeini).
L’avvocato assistè, all’inizio quasi divertito, poi meno, all’ascesa di Silvio Berlusconi e al declino del proprio peso politico; ma si dimostrò patriota quando, nel 2001, gli fornì un ministro degli Esteri (Renato Ruggiero, che resse però solo pochi mesi) perché l’Italia non facesse troppa brutta figura e troppi danni in Europa. Il crepuscolo fu triste; il post mortem peggio, con la figlia contro, la madre per questioni di eredità. Non c’era un testamento politico, ma era come se si sapesse che il XX era stato il secolo dell’automobile italiana, mentre il XXI non lo sarebbe stato.
E, infatti, è andata proprio così.