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 2013  gennaio 11 Venerdì calendario

LA CARITÀ CHE AIUTA CHI LA FA: UN BUSINESS DA 67 MILIARDI

[Nel 2012 l’Istat ha censito 457mila organizzazioni: il doppio di quelle presenti nel 2001. Su 100 euro donati, a un bambino africano ne arrivano 30] –
Onlus che divorano soldi facendo arrivare ai poveri solo le briciole delle donazioni ricevute; fondazioni umanitarie con stipendi da nababbi per i propri dirigenti; associazioni che sono in realtà truffe; gestioni finanziarie allegre di fondi generosamente donati da inconsapevoli cittadini.
Il mondo del no-profit è un universo complesso, raramente scandagliato dal giornalismo investigativo. E le sue storture vengono alla luce solo quando – caso non infrequente – la magistratura apre un’inchiesta. Eppure, si tratta di una realtà gigantesca: secondo una ricerca di Unicredit Foundation e Ipsos dell’aprile 2012, il no-profit italiano vale 67 miliardi l’anno, più del settore moda, conta per il 4,4% del Pil e dà lavoro a oltre 650.000 persone, il 35% in più rispetto a dieci anni fa. Un settore che non soffre neppure delle crisi economiche: benché nel biennio 2008-2010 vi sia stata una contrazione dei trasferimenti pubblici (-4,6 per cento) e di quelli a fondo perduto (-9,7 per cento), sono cresciuti i flussi da donazioni di privati (+6,8 per cento) e da autofinanziamento degli associati (+6,4 per cento).

Un’esplosione di associazioni. Questa massa di denaro ha fatto proliferare Onlus e Ong. Se negli anni Sessanta le Ong italiane non arrivavano a una ventina, oggi quelle riconosciute (ufficialmente eleggibili per il finanziamento pubblico) sono 248, si interessano di 3.000 progetti in 84 Paesi del mondo, occupano 5.500 persone e gestiscono 350 milioni di euro l’anno.
Ma le Ong rappresentano solo una piccola fetta del Terzo settore. Per cercare di capire quante sono queste realtà si può dire che nel 2012 l’Istat ha avviato il questionario per il censimento del settore no-profit spedendo i moduli a 457.000 organizzazioni, più del doppio rispetto alla rilevazione del 2001, quando ne erano state censite 235.000, con 500.000 dipendenti e 3.335.000 volontari. Rilevazioni successive parlavano di 7.363 cooperative sociali (2005), 4.700 fondazioni (2005) e 21.000 organizzazioni di volontariato (2003). Anche considerando che di quel mezzo milione di realtà no-profit a cui si rivolge l’Istat alcune siano fantasma o scomparse di recente, è lampante che dal 2001 a oggi la crescita nel numero sia stata esponenziale.

Truffe in agguato. Nonostante la massa spaventosa di denaro e di persone che ruota attorno a questo mondo, l’Italia pare essere ancora indietro nel controllo di come vengono spesi i soldi donati, dell’efficienza dei progetti, di quanto siano pagati i vertici delle organizzazioni. I bilanci spesso restano sconosciuti (o viene pubblicato solo il bilancio sociale, semplificato e spesso artefatto), la gestione finanziaria degli ingenti fondi fuori controllo. Non stupiscono allora casi come quello del “Madoff delle Onlus”, il finanziere Bernardino Pasta, responsabile di una società di investimenti, accusato di aver truffato due Onlus per oltre nove milioni di euro: un raggiro – secondo l’inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto di Milano Francesco Greco e dal pm Eugenio Fusco – che avrebbe riguardato i soldi da destinare ai bambini di Haiti, distrutta dal terremoto. Né sorprendono vicende come quella dell’attore Edoardo Costa, condannato col rito abbreviato a tre anni di reclusione e duemila euro di multa per truffa e appropriazione indebita. Costa si sarebbe intascato parte del denaro versato in beneficenza all’associazione a favore dei Paesi poveri da lui fondata, la C.I.A.K. E che dire del caso di monsignor Mauro Inzoli, il sacerdote di Crema, fino a tre mesi fa presidente del Banco Alimentare (espressione di Cl), arrestato per appropriazione indebita e “spretato” dalla Congregazione per la dottrina della fede?
Pesante anche l’inchiesta relativa ai fondi concessi dalla Regione Lombardia alla fondazione Asilo Mariuccia di Milano: il reato a carico dell’ex presidente Walter Espedito Izzo (già vicepresidente della Compagnia delle Opere), è stato qualificato nel marzo 2012 come indebita percezione di contributi pubblici. Senza contare che l’attico di una palazzina in via Pacini, donata all’Asilo Mariuccia, è stato venduto come nuda proprietà al figlio di Izzo per soli 87.000 euro.

Raggiri fiscali e soldi spariti. Dietro ai casi eclatanti c’è una miriade di situazioni sulle quali non si vigila. E quante – tra le oltre 235mila “unità istituzionali” che secondo l’Istat compongono il “privato sociale” – in realtà sono attività imprenditoriali che vogliono solo evitare di pagare le tasse? E a quanto ammonta il “nero” prodotto dal cosiddetto terzo settore? Non esiste in Italia, come negli Usa, un charity navigator, l’autorità indipendente on line che ogni anno valuta la correttezza di migliaia di Onlus, attribuendo loro dei ratings.
Un esperto della materia, il commercialista e revisore legale milanese Maurizio Reggi, che ha seguito la governance di varie Onlus, rivela a Sette: «La vita di queste organizzazioni è estremamente costosa: tra pubblicità in giornali e tv, spedizione di lettere, avvocati, commercialisti, grafici, impiegati e uffici, molti soldi se ne vanno. E su ogni 100 euro donati, ne arrivano in media 30 al bambino africano che muore».
Ma c’è anche il problema di come vengono spesi i soldi: «La scuola va costruita nel posto giusto, non dove mancano completamente le infrastrutture: ma chi controlla? Molte Onlus poi non rendono conto della propria situazione finanziaria e patrimoniale: chi gestisce masse di denaro a volte ingenti? Gli amici degli amici? Sono pochi i banchieri che lavorano a titolo gratuito. E i conflitti di interessi sono possibili», spiega il commercialista.

Inchiesta senza sconti. A fare luce su questa materia oscura è ora una inchiesta, L’industria della carità – Il volto nascosto della beneficenza (edito da Chiarelettere) di Valentina Furlanetto, una giornalista di Radio 24 (Il Sole 24 Ore) che basandosi sull’analisi dei bilanci e su testimonianze dirette racconta il lato oscuro di alcune Onlus no-profit. Il libro si apre con una penetrante riflessione di padre Alex Zanotelli, missionario, per anni direttore della rivista Nigrizia: «Ho l’impressione che le Ong – con le dovute eccezioni – alla fine siano servite più a noi che non agli impoveriti, perché funzionali a un modello di sviluppo occidentale. Diventano spesso i paletti avanzati del nostro commercio estero. Basta con la carità, c’è bisogno di giustizia. La liberazione viene sempre dal basso, dai poveri, mai dai ricchi».
L’inchiesta pone domande scomode: tra sms che salvano, adozioni a distanza, partite del cuore, campagne televisive, fiori e frutta benefiche, quanti milioni di euro raccolti arrivano a chi ha bisogno? Migliaia di associazioni sono in lotta una contro l’altra per i fondi, quelle più grandi spendono milioni per promuoversi e farsi conoscere, intanto le più piccole sono schiacciate dalla concorrenza. Gli stipendi dei manager del settore no-profit sono ormai uguali a quelli delle multinazionali: la buonuscita milionaria di Irene Khan, ex segretario generale di Amnesty International, è solo la punta dell’iceberg. Ma i soldi non sono che una parte della questione, c’è molto altro da sapere. Che fine fanno i vestiti che lasciamo ai poveri? Come funziona il sistema delle adozioni internazionali? E il commercio equo e solidale?
La Corte dei Conti nel luglio 2012 ha pubblicato una relazione dai toni abbastanza preoccupati dal titolo “Contributi alle Organizzazioni non governative per la realizzazione di attività di cooperazione”. «La Corte ha monitorato 84 progetti nel triennio 2008/2010 in 23 Paesi, e ha trovato di tutto: soldi mai arrivati, progetti fermi o in ritardo di anni, infrastrutture realizzate su terreni di terzi o inesistenti, rendiconti spariti, fondi fermi in Italia da mesi, responsabili di progetti fantasma e irregolarità di ogni tipo nel rendiconto delle spese sostenute», segnala Valentina Furlanetto.
Una Onlus italiana, il Ccs (Centro Cooperazione e Sviluppo) è stata al centro di un’inchiesta giudiziaria, nel 2006, sulle sue operazioni in Nepal. I vertici della Onlus sono stati accusati di associazione per delinquere e di appropriazione indebita. In parole povere – secondo l’accusa – si erano intascati i soldi della beneficenza.
Nel febbraio 2012 Simone Castellini, ex segretario generale del Ccs, è stato condannato a un anno e dieci mesi e 800 euro di multa; e Patricia Cavagnis, ex responsabile del Ccs in Mozambico, a un anno e quattro mesi e 400 euro di multa. Secondo il difensore di Cavagnis, Emanuele Tambuscio, la ex responsabile del Ccs per il Mozambico «ha di fatto confessato il reato per il quale è stata condannata. C’è da dire che lei non ha mai intascato soldi, ma ha solo assecondato le richieste dei suoi superiori. Quando ha deciso di interrompere i versamenti è stata licenziata». Altri due indagati hanno patteggiato.

I fondi per l’Abruzzo. Ex cooperanti raccontano di malversazioni in Sierra Leone, Etiopia e Haiti. Ma ne avvengono anche in casa nostra, come nel caso del terremoto in Abruzzo. Una testimone aquilana, Anna Pacifica Colasacco, parla di «sciacallaggio da parte di finte associazioni e gruppi che chiedevano soldi per aiutare i terremotati». Problematico anche l’utilizzo dei fondi raccolti da Jovanotti e da altri cantanti italiani nell’aprile 2009 con la vendita del brano Domani. A tre anni dal sisma dell’Aquila, ossia nell’aprile 2012, non era stato ancora utilizzato un euro della cifra ricavata dalla vendita del cd. «I soldi, oltre un milione di euro, sono rimasti fermi su un conto del ministero dei Beni culturali. Lo ha confermato, con una certa amarezza, anche il cantante sul suo sito Sole e Luna», denuncia Furlanetto.
I soldi erano destinati alla ricostruzione del Conservatorio Alfredo Casella e a quella del Teatro comunale.