Stefania Rossini, l’Espresso 11/1/2013, 11 gennaio 2013
TUTTI DELLO STESSO SESSO
A Stoccolma, nell’asilo che intende indicarci il futuro pedagogico dell’umanità, gli alunni non sono bambini o bambine, ma friend (amico/a) e vengono tutti chiamati con il pronome neutro "hen", inesistente nel vocabolario svedese ma usato ai tempi d’oro del femminismo. Nel piccolo mondo della scuola materna Egalia, sono abolite le favole tradizionali e i giocattoli, bambole comprese, sono rigorosamente neutri. Lo scopo è quello di inibire precocemente la discriminazione sessuale e inseguire, attraverso l’indistinzione, la totale parità.
A Toronto, una creatura di circa un anno sta crescendo senza che le sia dato alcun indizio del suo sesso biologico. Se si tratti di un bambino o di una bambina deve essere un segreto anche per l’intera comunità perché i genitori più politicamente corretti del mondo, come li ha definiti il "Times", intendono non condizionare la futura libertà di scelta del figlio/a, per lasciare che decida più tardi quel che vuole essere.
In Francia, nell’agenda dei diritti civili del presidente Hollande compare la proposta di abolire dal diritto di famiglia i ruoli di madre e padre, sostituiti con "genitore A" e "genitore B". Le polemiche non sembrano rallentare l’iter di una legge che fa da corollario alle promesse di dare alle coppie gay la possibilità di adottare bambini. Del resto in Gran Bretagna è dal 2008 che nella scuola e nella sanità si raccomanda di non definire più i genitori con i termini "father" e "mother" perché risulterebbero offensivi per le coppie omosessuali con figli.
Ma anche in Italia non mancano i segni di questa tendenza. A Padova, solo poche settimane fa una coppia di donne, una delle quali ha dato alla luce un bambino, ha chiesto e ottenuto che il reparto maternità dell’ospedale cambiasse la dicitura sui braccialetti di riconoscimento che vengono stretti al polso dell’altro genitore: non più "padre" ma "partner".
Nicchie, si dirà, fughe in avanti di minoranze che spingono al rialzo per rompere le resistenze di società dove dominano ancora discriminazione e omofobia. Ma se ciò è in parte vero, non va ignorata la novità insinuante di queste scelte: negare fino in fondo le differenze di genere tra uomini e donne. Siamo insomma a un’ulteriore tappa del paradigma del "gender", che sembra deciso a saldare una volta per tutte i debiti inevasi con la questione sessuale. Va infatti ricordato che è stata proprio l’introduzione di questo concetto a permettere di affrontare con armi nuove le questioni legate alla razza, all’etnicità e all’orientamento sessuale. Al culmine delle grandi battaglie del secolo scorso il femminismo americano impose il "gender" per sottolineare il fatto che le differenze tra uomini e donne sono costruite socialmente, e quindi modificabili, lasciando alla parola "sesso" il riferimento alle mere differenze biologiche tra maschio e femmina. Se ne appropriarono presto gli studi storici, antropologici e politici e infine il linguaggio comune. Nel frattempo anche gli uomini, per decenni spettatori e vittime delle lotte di emancipazione sessuale, hanno costruito un loro movimento di genere sulla condizione maschile. Presenti da anni negli Usa con organizzazioni come la National Coalition of Free Men, denunciano legislazioni orientate a loro sfavore nel lavoro e nel diritto familiare. In Europa e in Italia, dove il fenomeno ha il nome infelice di Movimento mascolinista, l’attenzione è puntata soprattutto sui diritti dei padri e sulle discriminazioni nell’affidamento dei figli.
E adesso, a quanto pare, si entra nella fase dell’elisione reciproca, né maschile né femminile, ma un incontro nella terra di nessuno: il neutro. Categoria inafferrabile attraverso la quale abolire gli stereotipi sociali che ancora caratterizzano i generi e piantare la bandiera di nuovi, ma sfuggenti, diritti. Vale la pena allora di cercarne il senso facendoci accompagnare da competenze allenate allo sguardo sul mutamento.
L’occhio del sociologo, specie se è quello di Marzio Barbagli, il più accreditato studioso italiano della famiglia e autore di un poderoso rapporto su "La sessualità degli italiani" (Il Mulino), non si lascia abbagliare dagli indizi di cui parliamo: «Sono iniziative che nascono da buone intenzioni, ma confondono il problema delle differenze con quello delle disuguaglianze, che continuano a esistere e vanno affrontate con il massimo sforzo». Barbagli ritiene addirittura che oggi, in Occidente, alcune peculiarità dei due sessi «siano da considerare positive, come per esempio la dolcezza e la capacità di cura da parte delle donne». Non sembri un ancoraggio al passato perché il sociologo, che fa fatica a immaginare che venga superata la distinzione tra padre e madre, anche se vede i due ruoli come sempre più sovrapponibili, pensa che la proposta acquisti senso per le coppie gay, dove il problema è arrivare al riconoscimento di diritti. Ma non lo si può fare mischiando tutto e facendo finta che non esistono le differenze di orientamento sessuale. Anzi, a suo parere, «la negazione, come è avvenuto nel politicamente corretto, porta più danni che vantaggi. Apprezzo di più le posizioni dei gruppi oppressi omosessuali che, come hanno fatto gli afroamericani, lottano enfatizzando gli aspetti positivi della loro differenza. Un esempio per tutti? Nella coppia omosessuale il lavoro domestico è più equamente diviso».
Nicla Vassallo, epistemologa di riconosciuto prestigio, ha scritto molto sugli stereotipi che catalogano le persone e in particolare le donne, confinate in attitudini inferiori. Dovrebbe quindi accogliere positivamente l’ingresso del "neutro" nel dibattito sui diritti. E in parte lo fa: «Filosoficamente ho buone argomentazioni per sostenere che andrebbero aboliti tutti i contenitori che ci classificano femmine-maschi o donne-uomini. A che pro favorire queste categorie quando ormai possiamo riprodurci in molti modi senza legarci agli stereotipi? Anche eliminare le parole padre e madre è una scelta apprezzabile perché il padre può essere materno e la madre no, perché ci sono genitorialità multiple con madri che affittano l’utero e madri che accolgono il bambino, perché in coppie omosessuali i padri e le madri possono essere due, e così via». Però anche lei si ferma di fronte a un’educazione che occulti l’identità di genere: «Non è giusto imporre queste decisioni ai bambini. Non sappiamo in che società vivranno da adulti e poco ci fa credere che saranno illuminate». Molti segni infatti rendono pessimista la filosofa sulla società presente e futura. Convinta che l’appartenenza a un genere non abbia nulla di naturale, ma sia sempre frutto di costruzioni socioculturali, riscontra nei suoi alunni all’Università di Genova un bel regresso rispetto agli anni passati. Se scrive sulla lavagna le parole "uomo" e "donna" e chiede agli studenti di indicare i loro difetti, riceve gli stereotipi di sempre. Le donne sono emotive o frigide, gli uomini insensibili o prepotenti. Lei spiega, insiste, nella speranza di correggere il messaggio assorbito negli ultimi vent’anni dove «i ruoli sono stati enfatizzati in modo deleterio». Ma, ci confessa, con pochi risultati.
Non resta che lo sguardo alle dinamiche interiori del fenomeno e alle conseguenze che uno slittamento così radicale della questione del "genere" può produrre nella mente. Ce lo dice indirettamente Simona Argentieri in un piccolo libro appena dato alle stampe con il titolo "Dietro lo schermo" (espress editore), dove la psicoanalista applica i suoi saperi ad alcuni film recenti. Tra questi "Xxy" dell’argentina Lucia Puenzo, toccante storia di un ermafrodito cresciuto come una bambina alle prese con le prime passioni adolescenziali. Un plot estremo che permette all’Argentieri di spiegare che «nella costruzione dell’identità di genere le esperienze relazionali e il modo in cui siamo allevati nella prima infanzia come bambini o bambine sono importanti quanto il patrimonio genetico». Chiederle allora che cosa pensa di questi tentativi di ricerca di neutralità è quasi pleonastico: «Sono l’equivalente speculare delle bambine con la bambola e dei bambini con il fuciletto dell’epoca fascista. Nascono dalla presunzione di avere un’idea precisa del processo di sviluppo maschile e femminile, e di correggerlo prevaricando». Il neutro, d’altra parte, a casa Freud si chiama "indistinto" e viene collocato in una fase arcaica del processo di sviluppo. Continua Argentieri: «La società sta cambiando con apprezzabili aggiustamenti di ruoli, ma si tende a far confusione tra il livello biologico che determina il sesso alla nascita, quello dell’identità di genere che è il senso psicologico di appartenenza al maschile al femminile o anche al neutro, quello della sessualità che ci fa avere un’attrazione per questo o per quella. Si tratta di un puzzle di combinazioni in cui il bambino cresce cercando una strada nell’alchimia di tutte le sue parti. Pensare di azzerarlo è una delle tante superficialità dei tempi».
Sociologia, filosofia e psicoanalisi hanno insomma buoni argomenti per sottrarsi alle provocazioni culturali che vengono dall’irruzione del neutro nelle categorie tradizionali. Ma come la storia del costume ci ha più volte mostrato, i comportamenti possono correre più velocemente delle idee (e della loro conferma normativa). È accaduto per le coppie di fatto, etero e gay, per le famiglie allargate, per i genitori single e per le diverse forme di concepire un figlio. Anche ciò di cui abbiamo parlato sta già accadendo, spontaneamente e senza chiedere permessi, in tanti punti diversi del mondo occidentale. Dovremo soltanto aspettare di vedere quando e come smetterà di stupire per essere accettato come uno dei nuovi modi di misurarci con la nostra sempre più confusa sessualità.