Orazio Carabini, l’Espresso 11/1/2013, 11 gennaio 2013
FRENATA DALLE LOBBY
[Elsa Fornero]
Viale dell’Astronomia, quartiere Eur di Roma, sede della Confindustria. All’inizio di settembre i tecnici dell’associazione presentano gli scenari economici per i prossimi mesi. La sala della Giunta è strapiena. Occorre aprire una sala attigua dove uno schermo gigante permette di seguire i lavori a chi è rimasto fuori. A tirare le conclusioni è stato invitato il ministro del Welfare. Quando Elsa Fornero prende la parola per elencare i risultati della sua attività al ministero, dalla riforma delle pensioni a quella del lavoro, nella sala comincia il borbottìo. Due imprenditori dall’inconfondibile inflessione bergamasca ribattono punto su punto, a voce alta. Scuotono la testa. Finché Fornero, arrivando alla revisione del sistema di ammortizzatori sociali, afferma tagliente: «Non si ripeteranno gli abusi del passato. Devo ricordare l’Alitalia (il riferimento è alla lunga, costosa e numerosa Cassa integrazione concessa per favorire la privatizzazione dei "capitani coraggiosi", ndr)?». «E lo dice a noi?», sbotta uno dei due imprenditori, convinto ovviamente che le responsabilità fossero semmai dei boiardi di Stato che avevano gestito la compagnia aerea prima della privatizzazione. L’altro prende la borsa e si avvia verso l’uscita: «Vado via perché mi fa incazzare».
Ecco, se c’è una categoria con cui la professoressa universitaria di economia prestata al governo non ha legato è quella degli imprenditori. Anche se, dice lei, adesso i rapporti con i vertici della Confindustria sono migliori. E anche se i rapporti con i sindacati, Cgil in particolare, sono stati tutt’altro che idilliaci. Anzi. Oggi, a fine mandato, Elsa Fornero non ha difficoltà ad ammetterlo: «Le parti sociali sono state per me fonte di delusione per la loro resistenza al cambiamento, per il loro arroccamento a difesa di posizioni che ancora reggono ma che non hanno futuro. Un esempio? Hanno resistito a lungo per non cambiare un sistema di ammortizzatori sociali alquanto inefficiente. Alla base vi è spesso un’insicurezza intellettuale, non priva di ambiguità, come nel caso di Confindustria che da un lato sostiene di volere un Paese più moderno, dall’altro ha fatto resistenza all’introduzione di procedure del mercato del lavoro che ci avvicinano alla situazione degli altri Paesi avanzati. Durante i quasi tre mesi di consultazione, ho constatato per un verso, per esempio sul licenziamento, una forte richiesta di liberalizzazione; dall’altro, un’opposizione quasi di principio a rivedere schemi di protezione sociale che comportano un grande spreco di risorse. Ricordo un incontro proprio sugli ammortizzatori sociali, al termine del quale dissi: non posso credere che questa sia la posizione di Confindustria non posso pensare che l’attuale struttura possa sembrarvi degna di un Paese efficiente. E, in effetti, anche dopo la riforma non sembrano essersi resi pienamente conto del carattere di svolta dell’introduzione dell’Aspi, l’assicurazione sociale per l’impiego, che mi auguro il prossimo governo continui con determinazione, completandola con l’attivazione delle politiche attive sulle quali il nostro non è riuscito a portare a termine l’intesa con gli enti locali».
Quando l’Aspi andrà a regime, spariranno la Cassa integrazione straordinaria, l’attuale indennità di disoccupazione e di mobilità. Tutti i lavoratori saranno invece coperti (precari compresi) più generosamente di prima ma per un periodo di tempo più breve: 12 mesi che saliranno a 18 per gli ultra 55enni. Già, perché la contropartita dell’introduzione dell’Aspi (che costa 2 miliardi di euro l’anno più degli ammortizzatori aboliti) sarà, almeno sulla carta, la fine degli abusi: quei cassintegrati o disoccupati cronici che per anni e anni percepivano il sussidio pubblico, e magari lavoravano in nero. «Ci sono casi di lavoratori, per esempio in Puglia, che sono coperti da 20 anni», precisa il ministro. «E pensare», aggiunge, «che il mio sogno è un rapporto tra le parti sociali meno conflittuale: magari ci si scontra, ci si confronta, poi si arriva a una decisione condivisa. È la stessa filosofia cui si ispira la riforma. Per esempio nella risoluzione dei conflitti di lavoro: meno cause dal giudice, più conciliazioni». Anche questo sforzo, la revisione dell’articolo 18, è stato poco apprezzato dalle parti sociali mentre è molto positivamente valutato dalle istituzioni internazionali. «Penso sia innegabile», dice Fornero, «che grazie alla riforma abbiamo un contesto normativo più favorevole alla competitività e all’occupazione, non alla difesa di singoli posti di lavoro esistenti, anche quando non più economicamente sostenibili». Veramente gli imprenditori non perdono occasione di accusarla di aver fatto poco per aumentare la flessibilità in uscita e di aver ridotto quella in entrata. «Ne abbiamo solo contrastato l’uso improprio», precisa il ministro, «perché, dopo l’introduzione dell’euro, le imprese, per molte delle quali la flessibilità si è trasformata in precarietà, hanno spesso ricreato quella spirale negativa che prima era rappresentata dalla sequenza svalutazione-inflazione-aumento dei salari. In molti casi il loro costo del lavoro si è ridotto attraverso l’uso improprio di forme contrattuali introdotte con altri obiettivi. Noi abbiamo cercato di interrompere questa tendenza abbinando l’intervento a una maggiore flessibilità in uscita. Il vero problema dell’Italia, infatti, è la produttività, che è ferma da più di dieci anni. E la produttività è una questione di investimenti, in capitale fisico, ma anche in capitale umano». Un fronte sul quale le imprese non hanno brillato. «Vede», continua il ministro, «il modello imprenditoriale italiano ha molti meriti ma dovrà tener conto delle esigenze della globalizzazione. Il controllo familiare assicura grande rapidità di decisione ma ha difficoltà nei passaggi generazionali, nell’introduzione di management qualificato, nei finanziamenti non bancari. Ne soffrono la ricerca e la penetrazione sui mercati esteri. Dal contesto italiano, poi, non arrivano certo aiuti: le tasse sono alte, il credito è scarso e molto più caro che in Germania, la burocrazia intralcia invece di aiutare, il cambio elevato dell’euro non favorisce le esportazioni, la giustizia è lenta. Le scorciatoie però non servono: bisogna affrontare i problemi e risolverli».
Ma se la sentirebbe il ministro di sostenere che dopo la cura Monti l’Italia è tornata a essere attrattiva per gli investimenti delle multinazionali? «Sono stata recentemente a New York», risponde Fornero, «ospite, tra l’altro, della Borsa di Wall Street. Ne ho ricavato l’impressione che negli Stati Uniti, ma direi nel mondo intero, è l’Europa, non solo l’Italia, a essere considerata in declino, a essere giudicata poco attraente per gli investimenti: troppo compiaciuta di specchiarsi nei suoi primati del passato, poco incline a cambiare. Chi ha capitali da investire, progetti industriali da portare avanti è freddo con l’Europa, in generale ma il giudizio particolarmente negativo per l’Italia si è molto attenuato grazie alle misure del nostro governo».
Insomma, siamo ancora a metà (forse) del guado. «Mi piacerebbe», osserva Fornero, «che il governo Monti fosse ricordato perché ha fatto venire a galla, in concreto, i problemi veri e ha cominciato ad affrontarli». Nel senso che occorre una fase due, ancora con Monti e magari con Fornero? «Comunque vadano le cose», risponde, «c’è un’agenda Monti. E qualsiasi scelta di Monti sarà dettata dalla stella polare dell’Europa. Quanto a me, torno all’insegnamento, ma con la stessa disponibilità a servire il Paese (in altri ruoli magari legati al tema delle pari opportunità) che ho mostrato in questi mesi».
E la Fiat di Sergio Marchionne, l’uomo che ha rotto con la Confindustria, che ha messo nell’angolo la Fiom e la Cgil, che ha tenuto in scacco l’Italia con il suo impalpabile piano di investimenti? «Marchionne è un manager capace e credibile», risponde Fornero, «ha dato segnali positivi, come quello recente dello stabilimento di Melfi, di non voler abbandonare il Paese. Credo che, vigilando, occorra dare fiducia alle persone capaci e, al tempo stesso, investire su relazioni industriali più costruttive. Confesso, per esempio, che mi sarebbe piaciuto fare di più per riavvicinare il vertice Fiat e la Fiom: a un certo punto ho pensato anche a una mossa concreta, poi ho verificato che la distanza tra le rispettive posizioni era troppo grande, almeno per il tempo a mia disposizione. E mi dispiace. Anche perché uno degli episodi che ricordo con maggiore soddisfazione è l’incontro con i 1.300 dipendenti dell’Alenia (in gran parte aderenti alla Fiom-Cgil, ndr) a Torino: un confronto in cui ho cercato di spiegare, non di convincere, in un clima, purtroppo non sempre facile da trovare in Italia, di reciproco rispetto».
Qualcosa di molto diverso dalle lunghe trattative nazionali con le parti sociali. «Quelle sì che sono davvero estenuanti», ricorda il ministro, «con i loro rituali antichi, e antistorici. Una volta ho azzardato: scambiamoci i documenti per mail. Mi è stato risposto: se comincia così non andiamo da nessuna parte. Ancora non ho capito perché. All’inizio della trattativa sulla riforma del lavoro ho presentato un documento di analisi del mercato del lavoro. Tutte riflessioni neutrali, sui numeri. Mi è stato intimato di ritirarlo altrimenti si sarebbe bloccato il confronto. Spero che le modalità di dialogo tra governo e parti sociali cambino, in fretta e radicalmente».
Quella del governo Monti sembrava dovesse essere la stagione della concertazione al femminile (anche se il termine concertazione non piace affatto al presidente uscente): un ministro donna al Welfare, un segretario donna alla Cgil, Susanna Camusso, una presidentessa (all’inizio) della Confindustria, Emma Marcegaglia. In realtà non c’è mai stato grande feeling. E per le donne continua a esserci poco spazio nelle stanze del potere. «Già», osserva Fornero, «è imbarazzante constatare come ce ne siano poche a occupare posizioni dove si pensano le strategie. E mi riferisco soprattutto ai partiti». Per consolarsi prima di Natale ha condiviso una cena con le colleghe Paola Severino e Anna Maria Cancellieri, e con la presidente della Rai, Anna Maria Tarantola. «Così, giusto per ricordare a noi stesse che la componente femminile ha un ruolo importante nel governo Monti. Ed è stata una cena molto gradevole».