Enrica Brocardo, Vanity Fair 9/1/2013, 9 gennaio 2013
TOM HANKS TUTTO, MA NON LO ZOMBIE
Ha solo 56 anni ma fa già parte di una generazione in via di estinzione. In un’industria cinematografica dove persino gli attori di serie C hanno gli addominali pompati e un publicist pronto a smarcarli dalle domande meno banali, e dai gossip che non hanno fatto nulla per evitare, Tom Hanks è uno che non ha mai avuto il fisico e nemmeno una vita spericolata. Sposato da quasi 25 anni con l’attrice Rita Wilson (il primo matrimonio con Samantha Lewes era durato dal 1978 al 1987), una faccia al massimo simpatica e una muscolatura da uomo qualunque, Hanks è riuscito a mettere insieme una lunga lista di personaggi che vanno dall’idiota Forrest Gump all’avvocato malato di Aids di Philadelphia (le due parti che gli hanno fatto vincere l’Oscar), dal brillante professore del Codice Da Vinci al naufrago di Cast Away.
Una galleria che Cloud Atlas (in uscita il 10 gennaio), il film codiretto dai fratelli Andy e Lana Wachowski più il regista tedesco Tom Tykwer, gli permette di arricchire in un colpo solo di quattro nuovi personaggi.
«Tra make-up e guardaroba, ogni cambio poteva richiedere otto ore di preparazione», racconta Hanks. «È stato come portare in scena il repertorio di un’intera stagione teatrale in un solo film. L’ho trovato fantastico». La duplicazione di ruoli ha riguardato tutti i protagonisti del film: Halle Berry, Hugh Grant, Hugo Weaving, James D’Arcy e altri ancora. Ed è motivata dalla trama, un complicato intreccio di storie, ognuna delle quali si dipana nell’arco di secoli. In una sorta di gigantesca raffigurazione della teoria del caos, ovvero: ogni azione che compiamo scatena una serie di conseguenze che si estende nello spazio e nel tempo ben oltre
i confini della nostra vita.
Una scommessa enorme per i Wachowski. Per almeno tre motivi. Perché alle spalle hanno un successo commerciale difficile da replicare come Matrix, perché il romanzo di David Mitchell (in Italia ripubblicato di recente da Frassinelli, con una prefazione dell’autore sul film) è il classico esempio di romanzo non traducibile in linguaggio cinematografico. E perché promuovere il film ha significato per Lana, un tempo Larry, mostrarsi per la prima volta in pubblico dopo il cambio di sesso avvenuto nel 2008. Una scommessa anche per Tom Hanks, che ha accettato di far parte del progetto quando ancora non si sapeva dove trovare i soldi, un centinaio di milioni di dollari, per realizzarlo: «Era già passato circa un anno e mezzo, quando incontrai i Wachowski a Chicago. “Come procede?”, chiesi. E loro: “Oh, stiamo cercando di trovare una ventina di milioni in Cina”», racconta l’attore.
Un sacco di personaggi e tre diversi registi. Non dev’essere stato facile.
«Io ho lavorato quasi esclusivamente con Andy e Lana. Ed è stato un po’ come avere a che fare con i fratelli Coen (che lo hanno diretto in Ladykillers del 2004, ndr): non finiscono la frase l’uno dell’altro, dicono esattamente le stesse cose. Sono fantastici. Halle si è rotta un piede il secondo giorno di lavorazione. Il commento di Andy fu: “Un dosso lungo la strada”. Tutto lì. Chiunque altro l’avrebbe sostituita. Loro, invece, hanno rimesso mano al piano delle riprese e hanno trovato il modo di far funzionare le cose».
Il messaggio del film è: dalla nascita alla morte siamo tutti legati gli uni agli altri. Concorda?
«“E ogni crimine così come ogni atto di gentilezza dà vita al nostro futuro”. È una di quelle frasi del film che mi hanno fatto pensare: lì dentro c’è il senso di tutta la storia. Le nostre azioni riverbereranno per migliaia di anni. Penso che in qualche modo sia vero».
Si tratta di una storia molto complessa.
«Prima di leggere la sceneggiatura, avevo già tentato con il libro, ma mi ero fermato perché facevo fatica a capire il linguaggio arcaico della parte iniziale. L’ho ripreso in mano successivamente, e mi sono reso conto che se avessi avuto la pazienza di andare avanti solo di poche pagine, avrei trovato una storia molto più leggibile e appassionante. Il film non è facile? Mi sembra un’ottima cosa. I film dovrebbero dividere il pubblico, scatenare reazioni contrastanti. Da spettatore detesto aver già intuito quello che succederà dopo pochi minuti. Sto lì seduto e mi annoio. Mi verrebbe da urlare: “Basta. Ho capito!”».
C’è un libro che ha avuto un’influenza particolare sulla sua vita?
«Oh, è difficile citarne solo uno. Leggo in continuazione, più saggistica che romanzi perché mi interessa approfondire le ragioni dei comportamenti umani. A volte mi capita di pensare: “Sarebbe bello farne un film”. Mi è successo, per esempio, con Il mio nome è Asher Lev di Chaim Potok (storia di un bambino chassidico a Brooklyn, e della sua emancipazione dalla famiglia e dalla religione di origine, ndr): non solo è un libro fantastico, ma al cinema funzionerebbe benissimo. Infatti, ci stiamo provando».
Mettere insieme il budget per Cloud Atlas è stato complicato. Deve essere piuttosto insolito per lei trovarsi nel cast di un film che fa fatica a trovare i soldi.
«Sta scherzando? È diventato difficile per tutti. Non esiste più nessuno abbastanza influente da poter dire: “Voglio fare questo film”, e riuscirci. Oggi, è più facile realizzare una buona serie Tv: c’è più libertà. Mentre gli studios sono solo business. Ormai non si produce nient’altro che sequel, remake o storie che corrispondono a modelli predefiniti. È tutto un ragionare sui numeri, i grafici e la concorrenza. Vai a parlare, racconti la trama: “C’è questo tizio al quale succede questo e quest’altro”, e alla fine ti senti dire: “Bene, ma potremmo metterci dentro uno zombie?”. Non esagero se dico che nel 90 per cento dei casi la risposta è no, perché secondo loro le cifre tornano».
Uno dei personaggi che interpreta in Cloud Atlas uccide il giornalista che ha osato criticarlo. Mai avuta la stessa tentazione dopo aver letto la critica a un suo film?
«(Ride). Ogni recensione è affascinante a modo suo. Mi ricordo in particolare il primo articolo che uscì sul mio primo film, Splash, una sirena a Manhattan (del 1984, ndr). Avevo lavorato tutto il giorno, era l’una e mezzo del mattino, i miei figli finalmente dormivano, presi in mano la rivista e cominciai a leggere. La prima parte raccontava quanto Daryl Hannah fosse fantastica, quindi proseguiva spiegando che John Candy era un meraviglioso attore comico, poi passava a tessere le lodi del regista Ron Howard, infine c’era la firma del giornalista: il mio nome non era neppure menzionato. Pensai: “Bene, ecco un bel sunto di come funziona l’industria del cinema”».