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 2013  gennaio 11 Venerdì calendario

CI GIOCHIAMO IL CREDITO

[intervista a Massimo Mucchetti]
Massimo Mucchetti non è mai stato il tipo di giornalista che passa il tempo a pettinare le bambole. L’espressione cara al segretario del Pd, Pierluigi Bersani (e al suo imitatore Maurizio Crozza) basta da sola a descrivere lo stile di lavoro di un professionista che con le sue inchieste, prima a "l’Espresso" e poi, negli ultimi nove anni, come vicedirettore del "Corriere della Sera", è sempre riuscito a non passare inosservato, facendosi parecchi nemici. Chiedere per informazioni al capo della Pirelli, Marco Tronchetti Provera e al numero uno della Fiat, Sergio Marchionne. Per questo la sua decisione di candidarsi alle prossime elezioni nelle fila del Partito Democratico, ha fatto discutere. E non solo nell’ambiente giornalistico. Ma come, perfino Mucchetti rinuncia alla sua indipendenza per schierarsi con il Pd. «Stai commettendo un grosso errore», ha messo nero su bianco il direttore del "Corriere", Ferruccio de Bortoli, in riposta alla lettera di commiato di una delle sue firme più prestigiose.
Mucchetti, lei ha difeso la sua scelta citando il caso di Luigi Einaudi, senatore del regno e allo stesso tempo autorevole articolista del "Corriere". Però vengono anche in mente i casi recenti di giornalisti come Michele Santoro e Lilli Gruber. Entrambi sono tornati sui loro passi, dopo una parentesi non proprio memorabile. Non teme anche lei di diventare irrilevante?
«Le attuali regole del "Corriere" stabiliscono l’incompatibilità tra incarichi elettivi e lavoro al giornale. E io rispetto queste regole. Rischi? I rischi ci sono sempre. Anche quando si cambia giornale può capitare di andare a stare peggio di come si stava prima».
Il Parlamento è un posto d’osservazione privilegiato su quella che in un articolo lei ha definito l’Italia dei Bisignani, l’Italia degli affari riservati e del compromesso continuo. Quanto è forte questa Italia?
«Era un’immagine giornalistica per raffigurare una cerchia assai più ampia che va ben al di là di quella persona e coinvolge le alte burocrazie statali e alcuni circoli manageriali. È una cerchia relazionale meno forte di una volta. Sta perdendo il suo architrave nel mondo berlusconiano, che aveva ereditato vecchi intrecci tra pezzi di partecipazioni statali e finanza privata».
Però col governo dei tecnici queste alte burocrazie sono sbarcate direttamente al governo.
«è stato uno dei limiti del governo tecnico. Magari dettato dall’emergenza, ma è stato un limite».
E il centrosinistra non è stato inquinato da questo mondo?
«Nella sostanza non credo. L’Italia delle consorterie ha bisogno di circoli chiusi e ristretti, non dell’Italia delle primarie».
Però lei arriverà in Parlamento senza passare dalle primarie, scelto direttamente da Bersani e inserito nel listino degli eletti sicuri.
«Il listino non l’ha inventato il Pd. E Bersani ha dimostrato di usarlo per portare in Parlamento persone con storie e competenze particolari. In altre stagioni, ad alcune personalità della Sinistra indipendente - ricordo il compianto Luigi Spaventa o Massimo Riva - venivano riservati i cosiddetti collegi sicuri».
Nei suoi articoli lei ha sempre difeso un’operazione sponsorizzata da Mediobanca come il salvataggio della Fonsai di Ligresti. Un’operazione criticata da molti commentatori. Vista la situazione, non sarebbe stato più opportuno il commissariamento della compagnia?
«L’unica alternativa al salvataggio di Fonsai effettuato da Unipol era l’insolvenza di Fonsai, e dunque il commissariamento forzoso. Chi mai si sarebbe fatto fare una polizza da una compagnia commissariata? Quando è divampato l’incendio, che da anni covava sotto la cenere, l’Italia era sull’orlo del default finanziario Fonsai aveva in portafoglio 25 miliardi di Btp. Un suo crollo avrebbe potuto innescare una crisi sistemica».
Nei suoi articoli lei ha spesso ricordato che è troppo facile scaricare sulle banche tutte le responsabilità del crac finanziario e poi della recessione. E per questo si è fatto la fama di amico dei banchieri. Lo troviamo un difettuccio ai manager del credito?
«La fama presso chi? Il crac finanziario è stato causato dalle banche di Wall Street e della City. Le banche italiane hanno subìto gli eventi. Ma va detto che anch’esse hanno incrementato le attività finanziarie rispetto al credito commerciale. Il sistema bancario si è concentrato allo scopo di far crescere le quotazioni dei titoli o per raggiungere una dimensione che scoraggiasse scalate ostili da gruppi esteri. Ne è derivata una beffa. L’attuale crollo dei valori fa sì che oggi l’intero sistema bancario domestico sia sulla carta scalabile, non appena si avvertisse una riduzione duratura del rischio Italia».
Quindi il sistema bancario verrà colonizzato?
«Non lo so e non me lo auguro. Sarebbe già bene se si uniformassero i criteri di elaborazione dei bilanci, che ancor oggi penalizzano il credito commerciale rispetto alle attività finanziarie. E dunque sfavoriscono le banche italiane, molto legate all’economia reale, rispetto a quelle nordeuropee nella valutazione dei mercati».
Lei è sempre stato un difensore del sistema delle fondazioni bancarie, ma il fatto che al vertice di questi enti ci siano dei signori di 70 anni e più non è di per sé il segnale che c’è qualcosa che non funziona? La foto di gruppo rivela un sistema malato. O no?
«Le fondazioni hanno assicurato stabilità al sistema bancario in una fase di grande trasformazione. Adesso dovranno rinnovare la loro classe dirigente. Diverso è il caso delle banche. I gerenti sono cambiati spesso. Sono invece durati a lungo alcuni presidenti come Giovanni Bazoli e Cesare Geronzi. Che hanno avuto storie parallele nel tempo ma diverse nelle premesse e nelle conclusioni. Il primo, a capo dell’Ambroveneto, era già il primo banchiere privato italiano prima dell’avvento delle fondazioni, l’altro proveniva da una cassa di risparmio, quella di Roma. Dall’Ambroveneto è derivata Intesa Sanpaolo; dalla Cariroma è venuta Capitalia, che non c’è più».
Non crede che anche il Pd abbia molto da rimproverarsi per la copertura che ha sempre dato, tramite la Fondazione Mps, alle disastrose scelte manageriali del Monte Paschi, prima tra tutte l’acquisizione di Banca Antonveneta nel 2007 a prezzi stellari?
«I rapporti tra il Pd senese e quello nazionale sono stati sempre complicati e ricchi di tensione. Siena aveva dalla sua un non ingiustificato orgoglio municipale e aveva il diritto di giocarsi la sua partita. Ha commesso degli errori e li sta pagando».
Non trova piuttosto singolare che l’ex presidente di Mps, Giuseppe Mussari, alla guida della banca quando vennero fatte quelle scelte disastrose sia diventato nientemeno che presidente dell’Abi, cioè la Confindustria dei banchieri?
«Mps ha pagato una cifra esagerata per Antonveneta. Tuttavia vorrei ricordare che quell’operazione non venne fermata dalla Banca d’Italia, allora guidata da Mario Draghi, alla quale spetta la sorveglianza sulla stabilità degli istituti. Evidentemente nella comunità bancaria prevale l’idea che quell’errore fosse principalmente figlio dei tempi. Del resto la crisi ha illuminato con una luce diversa anche certe onerose acquisizioni estere dell’Unicredit di Alessandro Profumo o la politica di dividendi e la mancata quotazione di Eurizon decise da Corrado Passera».
A suo tempo lei ha difeso anche l’ex governatore Antonio Fazio, condannato in primo grado per le scalate dell’estate del 2005, le scalate dei furbetti. Tutto bene, secondo lei? Fazio ha fatto quello che andava fatto?
«Fatto salvo il controllo di legalità che ovviamente spetta alla magistratura, io credo che sulle scalate o presunte tali del 2005 sia stata fatta una grande opera di disinformazione. Primo: non c’è mai stato alcun pericolo che Stefano Ricucci mettesse le mani sul "Corriere della Sera". Secondo: le operazioni di Gianpiero Fiorani su Antonveneta e quella dell’Unipol di Consorte su Bnl non facevano parte di un’unica strategia. Fazio ha sbagliato a fidarsi di certe persone, ma la difesa dell’italianità delle grandi banche è un pezzo di sovranità nazionale».
Scalate illegali, però. Oppure anche qui è stata fatta disinformazione?
«Di Fiorani e Antonveneta non discuto. Ma l’offerta di Unipol è stata bloccata da Bankitalia con lettera che diceva che il patrimonio della compagnia non era adeguato mentre restavano da verificare i requisiti di onorabilità perché erano state appena avviate inchieste giudiziarie. Possiamo dire che nelle successive operazioni Mps-Antonveneta e Capitalia-Unicredit ci fu analoga attenzione ai requisiti patrimoniali e, nel secondo caso, anche di onorabilità?».
Lei è stato uno dei pochissimi che ha criticato Marchionne anche quando tutti lo esaltavano, compresi alcuni dirigenti del Pd come per esempio Piero Fassino. In concreto che cosa si può fare per salvare Fiat?
«Fiat ha avuto un percorso erratico senza una strategia industriale di lungo termine. Si è limitata a cogliere le occasioni nel mondo dove era possibile lavorare sostenuti da cospicui aiuti di stato. Come negli Stati Uniti, in Polonia, Brasile, Serbia. Marchionne ha operato nelle condizioni date. Ma farne un modello è fuori luogo. Azionisti, banche, sindacati e governo dovrebbero aprire una discussione concreta su come salvare e sviluppare l’industria dell’auto in Italia. Vorrei ricordare che qualche mese fa la Volkswagen era interessata a trattare il marchio Alfa e uno dei grandi stabilimenti Fiat che sembra destinato a chiudere. Non se ne è fatto nulla e abbiamo perso quel treno. Forse per sempre».