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 2013  gennaio 09 Mercoledì calendario

SE NAUFRAGHIAMO IN QUESTO MARE

[Intervista a Pennac] –
Se uno dovesse leggere un saggio intitolato «Studio sulle plastiche concentrate nel Vortice subtropicale del Pacifico del Nord», passerebbe ad altro. Se la sostanza fosse questa, ma il libro si intitolasse L’oceano di plastica e l’autore principale Charles Moore (ambientalista-navigatore-ricercatore-Premio Pulitzer che quell’oceano ha scoperto per caso nel 1997) ci spiegasse con sciorinare di cifre e dettagli terrorizzanti che si tratta di un’immonda brodaglia grande come il Canada – uno stufato di plastica anche miniaturizzata prodotta da tutti i Paesi che affacciano sul Pacifico, la quale avvelena il mare, la terra, i cieli e gli abissi perché da un pezzo è entrata nella catena alimentare e provoca infertilità, autismo, disfunzione della tiroide e naturalmente cancro – la cosa si farebbe e si fa più appassionante.
Se poi alla fine nella triste e furibonda constatazione scientifica mette il naso Daniel Pennac, 68 anni, scrittore francese votato alla profondità della leggerezza, allora la faccenda diventa poetica e grottesca, ironica, irresistibile: perché Pennac – fresco autore con l’identica mano del libro Storia di un corpo, ma anche di sceneggiatura e dialoghi del recente film a cartoni Ernest & Célestine – ha utilizzato nel suo modo surreale alcune delle suggestioni del libro di Moore per ricavarne Il 6° continente, spettacolo teatrale che ha inaugurato a metà novembre la stagione del Teatro Stabile di Torino, e che potrebbe tornare in tournée a primavera: sulla scena l’insensatezza del capitalismo e dell’umanità che di esso vive, ossessionato il primo dal bisogno di produrre e la seconda (anche) dalla paura dello sporco e la mania per la pulizia. Che in realtà provoca lo sporco degli scarti, ben peggiore e definitivo perché praticamente ineliminabile. Ogni anno si producono nel mondo 300 milioni di tonnellate di plastica, ed è piuttosto illusorio pensare che sparisca: si degrada fino a diventare impercettibile ma c’è, e basta andare a pagina 267 del saggio americano per apprendere come il temibile bisfenolo A (fondamentale nella sintesi delle plastiche) sia rilevato nei prelievi del 90% degli americani, e i rischiosi ftalati (prodotti chimici tossici che migliorano la flessibilità delle materie plastiche) nel 95% dei campioni.

Pennac, che cosa l’ha colpita della scoperta di un «oceano di plastica»?
«Il paradosso: uno dei più straordinari inquinamenti nella storia dell’umanità è stato prodotto dalla preoccupazione della stessa umanità per la sporcizia. Tutto quello che produciamo per non avere contatti con lo sporco, l’enorme sforzo industriale, ha prodotto un sesto continente grande 5 o 6 volte la Francia. Pulizia e sporcizia sono l’una la conseguenza dell’altra. E, quando ci laviamo, lo sporco semplicemente si sposta».
Fino a diventare un detrito millesimale.
«Anche: microparticelle che gli animali ingeriscono, ovunque siano state prodotte. Un altro aspetto della globalizzazione».
Nella sua commedia il protagonista, campione del capitalismo di terza generazione, fa una brutta fine.
«Certo. Mostrificato dall’orrore che ha contribuito a creare, vorrebbe riconvertirsi all’ecologia. Ovviamente viene spogliato di tutto e gettato nudo nel sesto continente».
Lei ne ha fatto una commedia: i temi del saggio però sono angosciosi, generano senso di colpa anche in chi pensa di fare la sua parte, da consumatore accorto.
«Non credo che sarà il senso di colpa a soffocare la specie umana, che casomai soffocherà per effetto della sua estrema capacità di assolversi sempre».
Certamente viene un senso d’impotenza, il conflitto tra la nostra coscienza e la vita che facciamo può essere notevole.
«Non penso che l’industria abbia la minima coscienza. E non credo neanche che chi usa i prodotti plastici sia schiacciato dal rimorso. Forse ci sono forze giovani, giovani menti attente che da qualche parte lavorano per trasformare quel vortice di immondizia in una qualche forma di energia utile, e certamente ognuno può fare lo sforzo di inquinare il meno possibile. Prenda me, per esempio: a Parigi io faccio la cernita attenta dei rifiuti. Poi dalla finestra un giorno ho visto il camion della spazzatura raccogliere e rimettere tutto insieme. Ho riso fino alle lacrime».
Si ride anche nel suo romanzo Storia di un corpo.
«Lo sviluppo del corpo ci sorprende, ci insegna sempre qualcosa di nuovo: un piacere, un dolore… La maggior parte di noi tende a dimenticarsi del corpo, a considerarlo uno strumento, mentre è spirito. Per esplorarlo dobbiamo armarci di curiosità, distanza e un po’ di umorismo».
Oggi il corpo è un feticcio.
«Un bene di consumo, come tutto. Con l’ossessione di ringiovanire, si è diventati vittime dell’industria cosmetica e della chirurgia: tutte cose che viste dall’esterno sono abbastanza divertenti. Questa lotta contro la vecchiaia, questo tirare in qua e in là, ha come effetto secondario che si somigliano tutti, uomini e donne. C’è qualcosa di robotico nel viso di Berlusconi, non trova? E le donne, tutte con gli zigomi sporgenti? Si è creata una nuova razza e anche un paradosso: volendo essere uniche e speciali, si sono normalizzate».
Lei come vive la vecchiaia?
«Il futuro, intende. Con curiosità, spero. Del resto, credo di essere nato proprio per questo: per curiosità».