Silvia Nuccini, Vanity Fair 9/1/2013, 9 gennaio 2013
GIANNA NANNINI ROTTAMARE MAMELI
Sonoro delle foto che vedete in queste pagine, conversazione tra Wayne Maser (il fotografo) e Gianna Nannini (la fotografata).
«Gianna, ormai sei una madre, dovresti fare una foto con la bambina».
«Non ci penso nemmeno, e non ci pensa nemmeno lei».
«Allora comunque qualcosa di diverso: avevo pensato a un abito da sera».
«Io? Ma figurati».
«Gianna, nemmeno Mary J. Blige ha fatto tanti capricci».
«Wayne?».
«Sì?».
«Baciami il culo».
Dopo, in realtà, è finita bene, senza abiti da sera né bambini in braccio. Ma con le foto che vedete, tra cui forse i soli ritratti della storia recente di Gianna Nannini in cui lei ride, e – per sua stessa ammissione – incredibilmente si piace.
Interpellata sull’accaduto, la Nannini risponde quanto segue.
a) Abito da sera: «È difficilissimo camminarci. Io, poi, sono una persona libera, non voglio essere identificata con un sesso, cosa che inevitabilmente il vestito fa».
b) Mary J. Blige: «Non la conosco di persona. Ma cos’è ’sta storia che dobbiamo sempre essere paragonati ai cantanti americani? Una volta mi hanno chiamata per chiedermi un parere su Lady Gaga. Ho risposto: chiedete a Lady Gaga che cosa pensa di me».
c) La figlia: «Di Penelope non parlo. Lei non mi chiede niente di te e tu non mi chiedi niente di lei. Mi sembra uno scambio equo, no?».
Poi, però: racconta di come, a due anni, cerchi sempre di scrivere la P del suo nome e di come le riesca piuttosto bene; mi mostra la sua tavola da snowboard, minuscola accanto a quella della mamma; e mi chiede, con gli occhi accesi dei genitori quando fanno questa domanda, se l’ho vista.
Sì, Penelope l’ho vista per qualche istante, mi ha detto ciao, ha scosso i capelli lunghi e bellissimi ed è corsa via. Aveva su un cappottino che non mi sarei aspettata dalla figlia della Nannini. Andandosene, si è fermata un istante a guardare lo stereo da cui usciva la voce di sua madre.
Suonava Inno, il nuovo disco in uscita il 15 gennaio, 12 brani composti nell’arco dei suoi due anni di vita.
Quanto tempo ci vuole a fare una canzone?
«Cinque minuti a scriverla. A finirla, anche mesi. La canzone a me arriva come un bisogno fisiologico: di solito sto facendo altro e devo smettere per correre a scrivere. Poi c’è tutto il lavoro di disegno del suono intorno alla mia voce, creato assieme a Wil Malone che ha prodotto tra gli altri gli Iron Maiden: ho sempre tanta voglia di rock, ho il metal dentro».
Crescendo non si stempera questo metallo?
«A volte penso di sì, ma poi salta fuori quando meno me lo aspetto. Finito di incidere Inno, per esempio, è arrivata Baciami qui (il brano inedito che può scaricare chi acquista il biglietto del concerto, ndr), il pezzo più duro, e forse anche il migliore».
Il tempo non smussa gli spigoli?
«Il corpo cambia: in meglio, a volte, se fai un figlio. Fisicamente mi sento diversa, come più armonica, e mi piaccio molto più di prima. Amo gli sport estremi e il pilates che, se fatto seriamente, rigenera gli organi e centra il pensiero».
Perché ha chiamato il disco Inno?
«Perché è un inno alla rinascita. Non c’è rinascita se non c’è morte. Le prime canzoni le ho scritte appena nata la bambina, in un momento di grandissima felicità. Poi ho perso tre amici carissimi (tra cui Danny, a cui è dedicato un brano, ndr) e ho sentito il contrasto forte tra la gioia della nuova vita e il dolore della perdita. Si va avanti recuperando il ricordo e la felicità che ti ha regalato chi non c’è più. Solo accettando e ricomponendo tutto si rinasce. Il ciclo della vita assomiglia molto a quello dell’amore, anche lì c’è la nascita e la perdita. Gli inni dovrebbero raccontare questo, altro che Fratelli d’Italia».
Non le piace Mameli?
«Un inno è una canzone in cui riconoscersi e quello di Mameli, con tutto il rispetto, non mi piace: parla di un’Italia che non c’è più, è ora di cambiarlo. Fatelo scrivere alle sorelle d’Italia, fatelo scrivere a me. Perché l’Italia, per uscire dalla regressione culturale e politica in cui è caduta – il dualismo della Seconda Repubblica, quel metterci gli uno contro gli altri che ha solo creato il nemico, l’inciviltà, il razzismo, l’omofobia –, ha bisogno anche di un nuovo inno».
Niente elmo di Scipio, immagino.
«Ce l’ho già in testa: il mio sarà un inno libero. Perché è vero che non c’è stata la fine del mondo della profezia Maya, ma è anche vero che un mondo è finito, e qualcosa deve cambiare. Perché i nostri figli devono avere un posto decente dove crescere. Perché la gente ha preso coscienza, è stanca di farsi manipolare».
Sorelle d’Italia, diceva. Una mozione quote rosa?
«Quote rosa è uno slogan vuoto di senso, un premio di consolazione. Aiuta, per carità, ma non favorisce il cambiamento della percezione della donna, che in Italia continua a essere legata a preconcetti molto vecchi. Non basta nemmeno imporre donne al comando: non è detto che facciano meglio. Bisogna intervenire sull’educazione e sulla scuola, dove i bambini vengono ancora cresciuti secondo stereotipi di genere: tu giochi con le bambole, tu con il trenino».
Lei con Penelope come fa?
«Cerco di darle una vita il più normale possibile: per questo spero che, quando lei sarà grande, io non sarò più famosa. Mi sforzo di non farle pesare il valore materiale delle cose. Per il suo compleanno, per esempio, la festa è stata liberare in cielo dei palloncini. Uno di questi portava un biglietto attaccato “firmato” da lei: chi lo avesse trovato avrebbe ricevuto per Natale un pacco regalo. Ma quel giorno pioveva e ho temuto che i palloncini andassero persi. Invece dopo una settimana mi hanno chiamata dalla provincia di Sondrio: una coppia di signori, andando a portare le pecore al pascolo, aveva trovato il biglietto nel loro giardino».
Ma perché, invece di candidarsi a riscrivere l’inno, non si candida in politica?
«Non sarebbe una cattiva idea. Se lo facessi non sarebbe certo all’interno dello schema tradizionale destra-sinistra che ci ha già dato troppi anni di governi-troiaio. Anche se la politica già la faccio con quello che scrivo e canto, e con le mie azioni. Mi sono arrampicata sull’Ambasciata di Francia a Roma (per protestare contro le sperimentazioni nucleari nella Polinesia francese: l’avvocato che la difese fu Giuliano Pisapia, ndr), ho rifiutato il “titolo” di cavaliere del lavoro, in Grecia sono persino finita tre giorni in galera per aver picchiato un poliziotto».
L’aveva picchiato?
«Avevo 20 anni, ero in moto a Corfù con una mia compagna di università, gli chiedemmo un’indicazione e lui ci rispose male, cercò di ammanettarci. Mi girai e gli diedi un cartone. Forte. Lui ci rimase male. Ci portarono in galera, interrogate separatamente, lei fu liberata, io condannata. Al processo indossavo una gonna, dissi: io suono il pianoforte, non picchierei mai nessuno. Mi diedero 15 giorni con la condizionale. Ero in ansia perché in Italia mi aspettava il mio primo concerto rock davanti a Guccini. L’avvocato d’ufficio mi prestò i soldi per la cauzione, e uscii».
Mi dica tre cose che farebbe se scendesse davvero in campo.
«Primo: disarmo totale. Non credo nel concetto di difesa. Se non c’è arma non c’è offesa e non c’è necessità di difesa: guardi che cosa è successo in quella scuola in America. Allora, tutte le armi al bando. Secondo: detassare la beneficenza. Così sì che si aiuterebbe davvero il volontariato. Terzo: togliere i privilegi agli eterosessuali».
Prego?
«Sì: bisogna scardinare il pensiero dominante. L’eterosessuale ha privilegi e diritti che magari non vuole neanche esercitare. Gli altri, che non li hanno, si dannano l’anima per ottenerli. Dando i diritti alle coppie di fatto senza distinzioni, si eliminerebbe la strumentalizzazione elettorale della questione. Secondo me non bisogna combattere solo per il matrimonio gay ma per la libertà individuale, per fare in modo che una persona non venga più catalogata in categorie “formattate”: etero, gay, trans. Queste definizioni non dovrebbero neppure esistere».
Quindi no al matrimonio gay?
«Fermo restando che per me ciascuno dovrebbe avere il diritto di fare come crede, dal mio punto di vista, no al
matrimonio in generale: è un inganno istituzionale. Evviva l’amore di chiunque con chi vuole».
Altri punti dell’«agenda Nannini»?
«Promozione della cultura italiana: anche da noi, come altrove, radio e Tv non dovrebbero superare una certa quota di dischi “di importazione”, e la nostra musica dovrebbe essere valorizzata con un marchio, come la Doc per i vini. Salari uguali per donne e uomini: come è possibile che, nel 2013, a parità di mansioni una donna guadagni ancora meno di un uomo? E soprattutto, investimenti seri nell’educazione: libri gratuiti, corsi di laurea anche per i lavori artigianali che sono stati la nostra ricchezza e che possono ancora esserlo. La democrazia diventa una dittatura mascherata se non si insegna alle persone a prendere in mano la propria vita, a non metterla ciecamente nelle mani di un altro. È un lavoro che comincia nei primi anni di scuola».
Penelope frequenta già l’asilo?
«Sì. Oggi sono andata ad accompagnarla e mi ha fermato, tutta emozionata, una signora. Mi ha detto: “Grazie”. Perché è riuscita ad avere un figlio quando ormai non credeva più che fosse possibile, e dice che la forza gliel’ho data io. E allora ho pensato: ecco, vedi che anche io posso far miracoli. Ho visto tante donne, come lei, piangere di gioia e di gratitudine per essere riuscite a diventare madri quando pareva a loro».
In che modo pensa di averle aiutate?
«Semplicemente ribellandomi a questo vittimismo femminile secondo cui, dopo i quaranta, il corpo di una donna non è più buono a fare nulla, né il sesso né i figli né la carriera. Non parlo di maternità, parlo di tutto. E non ne faccio solo un discorso di società e modelli culturali, è prima ancora una questione di consapevolezza: le donne devono cominciare a vincere dentro la loro testa. Il pensiero che una donna è una vittima a me non va giù, a me la parola “femminicidio” non sta bene. Definirli femminicidi non basta a fare leggi migliori. E non servono solo punizioni, serve un’educazione diversa. Per le donne e per gli uomini. Anche i maschi: perché condizionarli ad averlo ritto tutto il giorno?».