Pino Corrias, Vanity Fair 9/1/2013, 9 gennaio 2013
DOVE IL GHIACCIO SI ROMPE SENZA RUMORE
Davanti alla cornice di questa storia c’è Stefano. Dentro la cornice c’è Kimberly. Sono passati anni e migliaia di chilometri. In realtà non è passato nulla, neanche il profumo del ghiaccio e gli strilli dei gabbiani Franklin tra gli iceberg.
«Di Kimberly ricordo il viso incorniciato nel cappuccio rosso del suo giaccone foderato di pelo, la pelle scura, il naso piccolo, il suo sorriso bianco. Aveva gli occhi tagliati sottili, come tutti gli Inuit, gli esquimesi, che abitano il mondo di ghiaccio del grande Nord. Era bellissima. Era dolce. Era triste. Mi teneva le mani e mi guardava. Stavamo sulla scogliera ai bordi della Baia di Hudson, Canada, dentro all’aria che friggeva a 30 gradi sotto zero imprigionando nel ghiaccio anche la risacca. La notte prima avevamo fatto l’amore nella mia camera al Seaport Hotel con il televisore acceso sul canale delle previsioni del tempo, perché a lei piaceva come sottofondo, e dopo l’ultima bottiglia di birra, eravamo usciti dentro l’alba che non smette mai dell’Aurora boreale, io e lei, unici abitanti in cima al mondo. E tenendomi le mani mi aveva detto: “Allora mi porti via con te?”».
«Promesso».
Aveva riso: «Quando?».
«Anche domani».
Mi aveva baciato: «Domani è tardi».
«E allora quando?».
«Adesso».
Stefano va al fondo delle cose, anche quando le cose vanno a fondo. È nato trent’anni fa davanti al mare di Pesaro. Ha il viso d’angelo, il fisico asciutto, la pelle dura. Da ragazzino soffriva la terra ferma e sulla banchina del porto scalpitava. Voleva farsi marinaio. Iniziò diventando cacciatore di storie e di viaggi, cercando rotte dentro i libri di Coloane e di Jack London. A vent’anni partì davvero. Viaggiò sui cargo lungo le coste dell’Africa, dell’India e del Sud America.
Dopo quattro anni scoprì il mistero di sua nonna Miranda, detta Mira, emigrata sessant’anni prima in Canada, nei territori minerari del Nord-Ovest, sparita nel nulla dietro all’ultima cartolina in bianco e nero datata 11 aprile 1939 che diceva: «State bene, come io sto qui. Anche se il freddo è tanto, il lavoro duro. Vi penso». E che raffigurava una montagna di neve con dentro una casa di legno, un mulo, un minatore.
Con i soldi della liquidazione, Stefano aveva seguito quella storia fino a una cittadina nel ghiaccio e nel nulla, Dawson, all’incrocio tra lo Yukon River e la Klondike Highway. Laggiù aveva trovato lo stesso bianco e nero della cartolina, lo stesso Gross Market in cui aveva lavorato la nonna come commessa e dentro a una vecchia guida del posto, intitolata La corsa all’oro del Klondike, la stessa cartolina ristampata. Quel giorno, rigirandosi l’antica foto tra le mani, Stefano aveva capito quante cose potesse contenere la cornice magica di una inquadratura. Non solo una casa di legno, un mulo e un minatore, ma anche lo spazio e il tempo di una intera storia, il mistero di una vita, piegati fino alla nostalgia. Lo stesso giorno comprò la sua prima macchina fotografica, una Nikon usata per diventare lui il punto di incrocio dello spazio e del tempo. Neanche immaginando che il destino, tirato fino a quelle latitudini, ci avrebbe aggiunto anche la nostalgia.
Ho sempre pensato che la mia storia con Kimberly fosse iniziata quel giorno, grazie a una nonna che non avevo mai conosciuto e che aveva lasciato lì quella piccola traccia di sé per farmi continuare il viaggio. Immaginavo che perdendomi in quel nulla di ghiaccio, prima o poi avrei trovato un altro segno da seguire fino alla spiegazione del suo mistero. Così andai a Winnipeg dove abitava il figlio del figlio del primo proprietario del Gross Market che si chiamava Lewis, una cinquantina d’anni, la faccia piena di lentiggini. In gioventù era stato pilota militare, poi si era congedato, la moglie lo aveva lasciato e lui si era gonfiato di birra e di ricordi. Mi disse che in qualche racconto del nonno spuntava questa strana italiana, chiamata Mira, che un giorno si era licenziata per correre dietro a un cacciatore Inuit e lo aveva seguito fino alle coste della Baia di Hudson, molto a Nord, verso il Circolo Polare Artico, dove vive l’orso bianco e sotto costa naviga la balena Beluga. Quel posto è il cuore del freddo e del vento, mi disse. È lontano da tutto. E anche il suo indirizzo viene da lontano, si chiama Churchill».
Churchill sta in una scheggia della Baia, dove si apre la foce del fiume Hudson, trecento case di legno e lamiera, mille abitanti, una Town Hall con dentro il centro commerciale, il campo da hockey, qualche bar dove Inuit e canadesi si riempiono di Cranky Beer, ma quasi mai seduti allo stesso tavolo, l’ospedale e il Municipio, tutto al riparo dal vento che soffia per giorni a 120 chilometri all’ora.
Da Winnipeg ci vogliono due notti e tre giorni di treno per lasciarsi alle spalle 2 mila chilometri di tundra e arrivare al mare. Un tempo, in quel punto c’era un villaggio esquimese. Poi arrivarono le baleniere e l’uomo bianco. Aprirono un paio di alberghi, un postribolo per commettere i peccati e una chiesa per cancellarli. Fu un cacciatore inglese a battezzarla Churchill. E furono i primi turisti a nominarla The Polar Bears Capital Of the World, la capitale mondiale degli orsi polari. Arrivano seguendo i branchi di foche. Ma quando sono affamati possono spingersi fin dentro la città, uccidere un uomo, oppure un cane. Per questo a Churchill è considerata buona norma non chiudere mai a chiave la porta di casa in modo che, in qualunque momento, un passante in fuga possa salvarsi la pelle da un orso che lo insegue.
Stefano arriva una mattina di fine settembre. La stazione è un edificio bianco e basso steso davanti all’unico binario. La banchina è aperta sulla strada. La strada corre fino al cielo. Interrotta qui e là da scatole coperte di neve: case o autotreni giganteschi che passano al rallentatore, seguiti da nuvole in viaggio. «Era come entrare nell’inquadratura di un vecchio film di fantascienza, uno strano pianeta bianco infilato in un bicchiere pieno di ghiaccio».
La incontra il primo giorno. Sta camminando lungo il Kelsey Boulevard, dove scivolano sul vetro giganteschi pick-up metallizzati e quad rossi. Dalle case escono sbuffi di fumo denso. C’è odore di hamburger e kerosene. Due ragazze gli passano accanto, si voltano e parlando tra loro si mettono a ridere. «Più o meno come fanno le studentesse a Pesaro nell’ora dello struscio». Lui è lo straniero arrivato da chissà dove, fuori stagione, sbarcato al Seaport Hotel. È l’attrazione del giorno.
Al secondo passaggio si fermano tutti e tre dentro lo stesso sorriso. Lei gli dice «You look very nice». E lui più o meno le dice la stessa cosa, sfiorandole la giacca a vento rossa, senza staccare gli occhi dai suoi. Mezz’ora dopo l’amica è sparita. Lui e lei stanno bevendo birra e stanno rigirandosi il disegno che Stefano le ha appena fatto per spiegarle dove stia esattamente l’Italia, al centro di quale mare e di quale emisfero.
Kimberly ha 19 anni. Non si è mai mossa dai dintorni di Churchill, Stato canadese del Manitoba, anche se i dintorni possono essere a uno o due giorni di viaggio.
Kimberly è Inuit. Pensa, come i suoi avi, che il sole sia femmina perché scalda e la luna maschio perché è bianca come il seme degli uomini. Ride. Racconta che un tempo gli Inuit conoscevano le stelle, le maree e al primo sguardo sapevano quanto fosse spesso il ghiaccio sul loro cammino.
«Ora tante cose si sono perse – gli stava dicendo Kimberly al terzo giro di birra –. E tante volte il ghiaccio si rompe sotto ai nostri piedi, senza fare rumore».
Stefano la ascoltava incantato. Il caldo dentro al bar vuoto li dondolava. Il tempo e lo spazio tornavano a incrociarsi davanti ai suoi occhi, danzando sulla plastica gialla del tavolo, più o meno dove si sfioravano le loro mani.
«Perché sei qui?», le chiese Kimberly.
«Sto viaggiando».
«È tutto?».
«No, c’è anche la faccenda di mia nonna».
Lei arricciò il naso: «Hai una nonna da queste parti?».
«Ho solo un pezzo della storia di mia nonna da queste parti».
«Raccontamela».
Il primo giorno lo passarono così, incrociando la loro battaglia navale sentimentale. Ogni tanto le loro domande facevano
centro e si apriva uno spiraglio in quelle due lontananze. Ogni tanto andavano a vuoto. Lei cominciò a chiamarlo Honey, dolcezza, lui a chiamarla Kim.
Il secondo giorno, con venti dollari, andarono sul Tundra Buggy, che ha le ruote immense, a vedere da vicino gli orsi, e scolarono una cassa di birre con Paul, l’autista, perché loro due erano gli unici turisti e Paul non aveva niente di meglio da fare. Al Crow Inn mangiarono granchi in scatola, giocarono a biliardo. Stefano vinse tutte le partite, compresa l’ultima, con un solo punto di vantaggio e uno strillo di lei. Pagò le birre. Kim gli scivolò addosso e con occhi dolcissimi gli chiese: «Che cosa vuoi per premio?».
Lui le disse: «Posso scegliere qualunque cosa?».
Lei rise e disse: «Sì».
Passarono due giorni e due notti al Seaport Hotel, esplorando il caldo dei loro corpi nudi, dormendo, guardando, oltre alle perturbazioni in arrivo, vecchi film in Tv, mangiando una dolcissima cioccolata bianca con cracker salati e bevendo birra. Ogni tanto parlavano di Mira. Di quella antica storia d’amore che era diventata questa nuovissima storia d’amore,
portando Stefano fino al suo giovane cuore Inuit.
Una volta appena svegli lei gli chiese: «Quando devi partire?».
Lui cominciò a calcolare i giorni di viaggio che ci volevano per tornare a Montréal, dove dopo tre settimane sarebbe scaduto il suo biglietto per rientrare a New York e poi in Europa. Ma quando stava per dirglielo, lei gli coprì la bocca con la mano. Gli disse: «Dimmelo l’ultimo giorno».
Il tempo, da quel giorno, cominciò a rallentare. «Giravamo per case tutte uguali, divani di finta pelle, cucine di plastica, ragazzi incantati davanti ai televisori, oppure ubriachi. Kim mi presentò ai sui genitori. Il padre lavorava al porto. Aveva grandi tatuaggi e il sorriso di Kim. La madre cuciva souvenir per i turisti e incassava il sussidio mensile. La mia impressione era che nessuno lavorasse molto in quella strana città, a parte darsi da fare per scaldarsi, mangiare hamburger, e smaltire la birra. Erano tutti infelici, ma in uno strano modo che ancora non capivo. Tutti mi coccolavano: ero il matto che viene dal pianeta abitato per stare in mezzo alle loro vite disabitate».
Un giorno, Kim stabilì che a Churchill non c’erano persone abbastanza anziane da interrogare sulla storia di Mira. Però a sei ore di pick-up, nell’insenatura dei ricordi, abitava Kinai, suo nonno materno. «Se vuoi ti ci porto», gli disse. «Ma non oggi, dopodomani. Resisterai?».
L’insenatura dei ricordi è blu, il ghiaccio scintillante, e il vecchio Kinai se ne sta seduto al centro con la sua faccia di alabastro che sorride. Nella sua baracca ci sono pelli di foca, gli arpioni per la caccia e il fuoco della stufa.
Kimberly e lui parlano Inuit. Il vecchio ogni tanto guarda Stefano. Poi offre il cibo agli ospiti, cuore di renna congelato, che taglia a fette sottilissime. Ogni fetta, tra le dita, ricomincia a sanguinare. Fuori, nella luce accecante, si è alzato il vento. E quando il vecchio esce, tutta la baracca si raggela e trema.
«Kinai dice che forse conosce la storia di tua nonna. Ora andrà a pesca e a mettere le trappole con due fratelli cacciatori che lo stanno aspettando. Staranno via fino a domani. Stanotte dormiremo qui, non si può tornare a Churchill, il tempo peggiora. Domani mangeremo con lui e ti dirà quello che sa».
La notte nella baia è un giorno rovesciato, con una striscia di fuoco all’orizzonte e le lunghe ombre tra i ghiacci. Lui le racconta delle sue colline in autunno, degli ombrelloni d’estate. Lei delle balene, quando soffiano e tutto il mare ribolle. Poi si
addormentano dentro a pelli di renna e a sogni arrotolati nella lana. Si sentono così soli al mondo che dormono con le gambe e i respiri intrecciati. Ai bordi dell’ultimo sogno, Stefano si ferma ansimando in mezzo alla neve. Una goccia di sangue denso gli cade dalle dita, la goccia si spande sulla neve, l’amaranto diventa rosso, un urlo lontano lo fa svegliare.
«L’urlo era quello di un gabbiano, ma il sogno non mi è mai più volato via. E Kimberly, quando gliel’ho raccontato, mi ha chiuso gli occhi con una carezza e mi ha baciato». Il bacio voleva curarlo dalla premonizione.
A metà mattina è rientrato Kinai con tre pernici uccise il giorno prima. Si sono seduti e le hanno mangiate alla maniera Inuit, crude, tagliando a metà il ventre e ficcandoci dentro la faccia. Poi si sono puliti con l’acqua. Nel frattempo Kinai parlava e Kimberly traduceva. Cominciò dicendo che il popolo degli uomini, gli Inuit, era arrivato da Est 40 mila anni prima, quando la Siberia e l’Alaska erano una sola terra di ghiaccio. Non conoscevano il fuoco e neanche il caldo, a parte quello dei corpi vivi. Così pensavano che la vita e il caldo fossero una cosa sola. Solo che anche la terra ghiacciata e l’acqua fredda del mare erano piene di vita. E siccome non sapevano come sciogliere l’enigma, lo accettavano in quanto mistero.
Del resto tutta la vita è un mistero. Anche l’amore. Per esempio l’amore tra una donna Inuit e un viaggiatore bianco, disse Kinai, guardando lui e Kimberly. Oppure tra un viaggiatore Inuit e una donna bianca, come è accaduto tanti anni fa, o almeno così gli era stato raccontato. Ed era una storia molto triste. Perché gli uomini bianchi delle baleniere – che avevano portato la birra e le malattie nella loro terra gelata – non lo potevano ammettere. I due vennero picchiati fino a che molto sangue cadde sulla neve. Ma qualcuno curò le ferite agli innamorati, diede loro una piroga, degli arpioni e della carne per i primi giorni. Così i due fuggirono verso altre baie più a Nord, perdendosi per molte stagioni. Ebbero un figlio. Ma sul grande ghiaccio non si può vivere così isolati. Così un giorno morirono tutti e tre, e gli orsi cancellarono ogni traccia. O, almeno, così gli era stato raccontato.
Stefano provò più dolore di quanto si aspettasse. E il dolore entrò a far parte dell’incantamento fatto di sogno e veglia, di ombre sempre più lunghe e di luce che non si spegne mai, quella che gli Inuit chiamano: una luce che non è orso né cane.
Tornarono a Churchill. Ricominciò il vortice dei giorni e dei bar, le passeggiate verso la scogliera e le ore davanti al fuoco, nella penombra di una infelicità che si posava su tutte le cose, compresi gli occhi sottili di Kimberly, e che attraeva Stefano come una lenta assuefazione che lo stava soffocando. Una mattina fece cento addominali per scrollarsela di dosso. Poi raggiunse Kim sotto la doccia, e le disse che l’indomani sarebbe ripartito.
Lei disse: «Allora è stasera che ci diremo addio».
Lui le prese le mani: «Se vuoi puoi raggiungermi in Italia».
Kim diventò triste, ma anche da triste gli sorrise: «Da noi si dice che i ricordi sono come le orme nella neve. Servono a non dimenticare da dove sei partito. E qualche volta per ritrovare la strada del ritorno».
Lui capì e le disse: «Io tornerò a prenderti».
Il viaggio verso il caldo fu più veloce del previsto.
«Dopo un mese di Canada e Artico, l’Europa mi sembrava un posto frenetico e tropicale. All’inizio chiamo Kim tutti i giorni. Le prometto di tornare per Natale. Ma naturalmente man mano che rientro nella vecchia vita le cose si fanno più lontane. Comincio a lavorare per un’agenzia di stampa, viaggio. Lei ogni tanto mi chiama in piena notte, mi sembra una storia folle, lontanissima. Parto per l’Africa, poi l’Indonesia, poi la Cina, il mondo mi gira intorno…
«Passano 7 anni e neanche me ne accorgo. Fino a quando, seguendo a ritroso la migrazione delle farfalle monarca, che ogni anno a fine estate volano per 5 mila chilometri dal Canada al Messico, mi ritrovo a Québec City. Ho finito il servizio, vado a fotografare la casa di Saint-Exupéry e, chissà perché, mi torna in mente Kimberly. L’idea di rivederla mi sembra l’unica cosa importante da fare al mondo. Scopro che dall’aeroporto di Québec ci sono due voli alla settimana per Churchill. Compro il biglietto. E l’indomani, dopo 4 ore di volo, sbarco nello stesso sogno di 7 anni prima».
Stefano ritrova la stessa stanza al Seaport Hotel. E Kimberly la incontra più o meno nello stesso punto della prima volta. «Sapevo che da un paio di anni faceva l’infermiera. Ne vedo quattro appena uscite dalla Town Hall, mi avvicino per chiedere informazioni. La prima che si volta è lei. Ha gli occhiali. È bellissima. Balbetto. Lei mi chiede: che cosa ci fai qui? Prova a sorridermi. Spegne la sigaretta. Mi dice: stacco tra un’ora. Se mi aspetti, esco e ti presento il mio fidanzato. Mi gelo».
Kimberly ricompare insieme a un tizio con i capelli lunghi raccolti da un elastico, giaccone e pantaloni neri, le mani in tasca: «Ciao, io sono Scott».
«Scott era una specie di armadio canadese. Bevitore, attaccabrighe. Era fuori sulla parola per rissa. Faceva l’aiuto cuoco in un posto chiamato Gypsy’s Bakery and Restaurant. Odiava gli Inuit, tranne Kimberly. Guidava un pick-up nero immenso, pieno di bottiglie di birra e musica. Vieni, ti facciamo fare un giro. Fumiamo dell’hascisc fortissimo. Giriamo per un paio di ore nel nulla. Quando comincio a chiedermi che cazzo ci faccio lì, mi riportano indietro. Mentre scendo lei mi sfiora la mano e mi sussurra: se ti va ci rivediamo domattina.
«La mattina dopo arriva trafelata e dolce, mi dice: non ti ho mai dimenticato. Sono sempre stata innamorata di te. Ogni giorno di questi sette anni ti ho pensato. Ogni giorno. Ed era così dolce, così sola che prima di accorgermene le ho detto: anch’io ti ho sempre amato. E mentre lo dicevo, scoprii che lo pensavo veramente, era vero, non l’avevo mai dimenticata».
Da quel momento, tra Kim e Stefano ritorna il mondo di prima. Le orme sulla neve li hanno riportati al Seaport Hotel, nello stesso letto. E alla mattina Kim gli dice che non vuole più vivere con Scott. Gli dice: «Vado a prendere le mie cose, aspettami».
Invece sparisce per tutto il giorno. E quando torna, alla sera, ha il corpo pieno di lividi. Gli dice: «Voglio scappare con te. Andremo da Kinai e poi ci sposteremo verso qualche baia più a Nord».
Lui l’abbraccia, le sorride: «Dove ho già sentito questa storia?».
Un’ora dopo sono nella cucina dei genitori di Kimberly. Padre e madre abbracciano Stefano e la figlia che è tornata. «Potete dormire qui stanotte», dice loro il padre. E a Stefano: «Tu farai felice mia figlia portandola via di qui».
Stappano birre e cominciano a ubriacarsi raccontandosi storie. Bevono, si abbracciano. La madre abbassa la luce, accende la radio sulla stazione di musica country, prende il marito che sta in piedi per miracolo e cominciano a ballare il lento, abbracciati stretti, al centro della cucina e del mondo. Poi si alzano anche Stefano e Kim. Ballano tutti e quattro. E anche piangono, i vecchi e i ragazzi, per come sono andate le cose nel loro unico mondo e per come andranno. E la musica lentissima trasforma la plastica degli arredi in rifrazioni di velluto, il dolore di Kim e le paure di Stefano in tenerezza, cancellando anche il vento che fuori soffia e fa tremare tutte le ombre del buio che si muovono con gli orsi. Per lasciare solo la voce di Kim, diventata un soffio, che dice: «Fammi fare un figlio stanotte».
Quella notte fu bellissima. Negli occhi innamorati di Kim avevo scoperto il mistero di mia nonna e di tutti gli amori che non possono compiersi, ma ti attraggono come fa il vuoto. Ora sapevo che io e lei saremmo finiti dove il ghiaccio si rompe senza fare rumore.
«Svegliandomi, il giorno dopo, trovai il padre di Kim addormentato con la faccia sul tavolo, la madre sul divano. Kim era sparita di nuovo. Il volo della Calm Air tornava a Québec nel pomeriggio. Tre giorni più tardi stavo a Pesaro davanti al mare a ripensare al viso di Kim in quella cucina. Un mese dopo mi arrivò la lettera del padre: Kim si era uccisa gettandosi dalla scogliera, nel punto in cui non si può risalire. Il corpo non l’hanno mai trovato. Ma io so che sta da qualche parte, insieme a Mira, nella pianura delle lunghe ombre, dove nessuno riesce mai a essere felice».