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 2013  gennaio 10 Giovedì calendario

QUANDO STILLE DETTAVA L’ITALIA PRENDEVA NOTA

[Alexander, il figlio del grande Ugo, dedica un libro al padre Che fu esempio inarrivabile di chiarezza e profondità d’analisi] –
Esce da Garzanti un saggio di Alexander Stille La forza del­le cose ( pagg. 467, 24 euro) de­dicato al padre Ugo. Che fu un leggendario corrispondente dagli Stati Uniti del Corriere della Sera , dive­nendone da ultimo direttore. Solo chi ha vissuto i più lontani anni del quoti­diano di via Solferino può dire e scrive­re - scusate la presunzione - cosa Ugo Stille, Misha per gli amici, abbia rappre­sentato nella cultura e nel giornalismo italiani.
Nell’immediato dopoguerra,stagio­ne di grandi stenti e di una primordiali­tà tecnologica­che adesso suscitereb­bero ilarità in un bambino di due anni­lo Stille arrivava a sera inoltrata, per il cambiamento di fuso orario, via radio. Lo captava e trascriveva un’apparec­chiatura che il Corriere aveva installa­to là dov’era il suo campo sportivo, vici­no al cimitero di Musocco a Milano. Il più delle volte le cose non andarono molto bene, almeno all’inizio. Fosse colpa delle condizioni meteorologi­che o fosse colpa di difetti del sistema, la prosa di Stille, nitida ed esauriente, approdava a Musocco a pezzi e bocco­ni, talvolta non approdava per niente. Michele Mottola, grande e ineguaglia­to regista del maggior quotidiano italia­no, era disperato. Più di lui lo era soltan­to un bravo tecnico, milanesone a 24 ca­rati, attaccatissimo al lavoro, che al buon esito della missione pionieristi­ca doveva sovrintendere.
Ma spesso e volentieri l’esito non era buono.L’amarezza del Corrierone era accresciuta dal fatto che- almeno stan­do a quanto al Corriere si mormorava ­i
messaggi di Stille erano captati a Ro­ma dal Messaggero . Che un po’ taroc­candoli li pubblicava. Oltre al danno la beffa. Da inviatino- posto professional­mente molti gradini sotto Stille, e trovo che fosse giustissimo - seguivo con ri­servatezza doverosa ma con non me­no doverosa partecipazione gli svilup­pi e le repliche del dramma. Una sera, dovendo riferire qualcosa a Mottola, mi trovai alle spalle del già citato mila­nesone, che di cognome faceva Buffa. Lui aprì la porta del sancta sanctorum mottoliano, dalla poltrona in cui era sprofondato come un bonzo, Mottola lo investì con un interrogativo speran­zoso e angosciato insieme. «L’abbiamo preso lo Stille?» Con lo sguardo di un segugio frustrato il Buffa rispose: «Sì,in d’iciap», sì l’abbiamo preso nel­le chiappe. Ma non c’era nulla d’offensi­vo e d’insultante in quell’esclamazio­ne, solo la leale confessione d’una sconfitta.
Poi tutto cambiò, Stille continuò a scrivere come prima e meglio di prima ma poteva tranquillamente telefona­re. Lo faceva dal suo rifugio nel palazzo del New York Times, elargendo al Cor­riere quelli che a me e non solo a me sembravano autentici capolavori di chiarezza e di sintesi. Lo vedevo quan­do veniva a Milano, ebbi modo di frequentarlo un po’ di più dopo che fu no­minato direttore, anche se io ero traslo­cato al Giornale . Ma in una occasione precedente ebbi modo di sperimenta­re cosa significhi essere­ magari anche a tempo perso - un fuoriclasse.
Per un accordo con il Corriere e con la Rai partecipavo a una trasmissione in più puntate su La giustizia in Italia e nel mondo . Era prevista- e indispensa­bile- una tappa negli Usa. Avevano im­pegnato un bravo collega residente a New York perché preparasse materia­le e incontri. Abbondanti, anzi sovrab­bondanti, l’uno e gli altri. Ma avevo le idee confuse. Finché andai a trovare Stille, gli spiegai il motivo del mio viag­gio, e lui chiarì tutto. «Sai Mario- disse, rammento quasi parola per parola - in Italia gli addetti, a cominciare dai mi­gliori, ritengono che la giustizia sia un’entità suprema, un ideale cuiilsin­golo magistrato deve tentare d’avvici­narsi tra lungaggini e cavilli. Una giusti­zia che cala dall’alto dei millenni. Ne­gli Stati Uniti la giustizia viene dal bas­so, si ispira a quella delle carovane dei pionieri dove gli anziani si riunivano in giuria per punire le malefatte. È una giustizia che rispecchia e interpreta il costume, la “cultura”, i principi e an­che le opacità e le discriminazioni, raz­ziali o altre, della comunità. Alla quale i magistrati devono rispondere per i co­sti. Così si spiega anche il giudice eletti­vo, che può portare a decisioni aberran­ti ». Mentre Stille mi regalava queste idee, qualcuno gli gridava che Milano era in linea, aspettavano il suo pezzo, e lui con un gesto pigro prendeva tempo «vengo subito, vengo subito». Dopo che ebbe telefonato uscimmo insieme per mangiare qualcosa lì vicino. Offrì lui, ma non fu una cena di gala. Mi ren­do conto di quanto siano frammentari e irrilevanti questi miei ricordi. E non vorrei aver l’aria di chi si accoda al rim­pianto rituale «l’ultima volta che mi vi­de », «un giorno mi disse». Semplice­mente mi sono sforzato, da vecchio giornalista, di spiegare, con qualche ri­ga, perché Ugo Stille sia stato un mito, e tale rimanga nella memoria di chi l’ha poco o tanto frequentato.