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 2013  gennaio 11 Venerdì calendario

Per certi versi, ricordano le voci disperate delle vittime delle Torri Gemelle, che dai tetti degli edifici incendiati stanno per lanciarsi nel vuoto

Per certi versi, ricordano le voci disperate delle vittime delle Torri Gemelle, che dai tetti degli edifici incendiati stanno per lanciarsi nel vuoto. Oppure i racconti dei protagonisti di Rashomon , il grande film di Akira Kurosawa sulle apparenti sfaccettature della realtà. Ma certo, gli storici che vorranno approfondire i molti aspetti incerti del periodo della caduta della Prima Repubblica - e della dissoluzione del Psi che ne fu l’epicentro non potranno prescindere dall’ultimo dei sei volumi pubblicati dalla Fondazione Socialismo sugli «anni di Craxi», intitolato significativamente Il crollo (a cura di Gennaro Acquaviva e Luigi Covatta, Ricerche Marsilio, pp. 1038) e basato su una singolare seduta di autocoscienza. In cui i capi di quello che fu il partito più dinamico e moderno del «lungo decennio», tra il 1978 e il ’92, riflettono sulla loro «disfatta repentina e sorprendente». Eppure eravamo i più giovani, i più preparati, i più portati a gestire il tentativo di uscire dal vecchio equilibrio italiano post-quarantottesco, dicono uno dopo l’altro Amato, De Michelis, Martelli, Formica, Cicchitto, Signorile e tutto il vertice socialista di allora. E avevamo il leader migliore, che s’era rapidamente imposto, sul piano interno e internazionale. Sfilano le istantanee dei giorni gloriosi della presidenza socialista. Reagan che chiede a Craxi quanto tempo gli serve per portare a termine il suo «job». E quello, sicuro di sé, gli risponde: «Tre anni». Poi, nel giorno di Sigonella, De Michelis assiste attonito al braccio di ferro con gli americani: «Se pensano di sfidarmi, gli spezzerò le ossa, perché l’Italia dev’essere autonoma...», lo sente esclamare. È il momento in cui il ministro, che non avrebbe mai commesso una tale imprudenza, si consola pensando: «Mutatis mutandis, io sono Cavour e lui Garibaldi. (...) E infatti, Garibaldi finì a Caprera e Bettino a Hammamet». Sono tutti lì, seduti davanti all’orizzonte del passato che non passa, in cerca di spiegazioni della sconfitta. La tesi del complotto internazionale sfociato in Tangentopoli, e nello strabismo dei magistrati di Milano accanitisi oltremodo contro di loro, è giustificativa ma insufficiente. Ci sono evidenti ragioni politiche del crollo. Signorile taglia corto: «La morte di Bettino è stata il Caf!», lasciarsi imprigionare nella rete di Andreotti e Forlani che gli promisero, senza mantenere, il ritorno a Palazzo Chigi. Martelli obietta: l’errore fu trascurare i rapporti con laici e radicali e la linea movimentista che portò ai referendum sul nucleare e sulla giustizia del 1987; a cui, per inciso, Craxi era contrario. Figurarsi, controbatte Acquaviva, quelli erano i passatempi del «delfino» e degli altri rimasti fuori del governo a «giocare con le bambole», mentre il presidente socialista faceva la grande politica, firmava il Concordato con il Vaticano e promuoveva il vero referendum, sulla scala mobile, contro il Pci berlingueriano e la Cgil. Su un punto, almeno, sono tutti d’accordo: dopo un decennio in crescita, dal fatidico ’76 del Midas che incorona Craxi alla guida del Psi, i guai cominciano nel 1987, quando De Mita sfratta Bettino da Palazzo Chigi. Allora, il leader che a giudizio dei suoi compagni aveva sempre dimostrato straordinaria fantasia e ineguagliabile capacità d’iniziativa, comincia a girare a vuoto. Un po’ è l’angustia di prospettiva del partito rispetto alle grandi sfide del governo: occuparsi delle liti interne delle correnti, riunire la direzione, tutte le settimane, per vedere musi lunghi e silenzi eloquenti, non doveva essere così appassionante per il primo presidente socialista della storia repubblicana. Martelli, Formica e Signorile lo sollecitano a darsi un’orizzonte diverso, a cercare una maggiore sintonia con i comunisti dopo gli anni dello scontro con Berlinguer. Ma Craxi indugia anche dopo l’89, la caduta del Muro di Berlino e il cambio di nome del Pci. Una sera che Martelli va a trovarlo a casa a Milano e cenano in cucina, da soli, con un piatto di spaghetti rimediato alla meglio, il delfino cerca di convincerlo che l’unica strada è «tentare di guidare la transizione» dei cugini separati, approfittando delle loro difficoltà. La risposta è categorica: «Claudio, mi hanno lottato contro tutta la vita, mi hanno combattuto in modo infame, mi hanno fatto venire il sangue marcio, adesso che questa storia è finita, e il loro mondo gli crolla addosso, non voglio che neanche un calcinaccio di quei muri mi sfiori». E poco dopo, a Occhetto che spinto sempre da Martelli cerca di interloquire, Craxi, che lo conosce dai tempi dell’università, risponde a muso duro: «Attento, perché io di Martelli farò poltiglia!». Lo vedono incerto, dubbioso, incapace di uscire dalla cornice di un accordo soffocante con la Dc, e non sanno spiegarsi perché. Formica ritiene che in quegli anni che arrivano al ’92 del terremoto finale abbia giocato il timore di un colpo di Stato. De Michelis afferma che l’ipotesi di uno spostamento a sinistra era una chimera e l’unica realtà era il puntellamento del centrosinistra e del pentapartito. Martelli e Signorile aggiungono, come motivo di debolezza, lo stato di salute peggiorato del leader. Era già stato molto male nel ’76: un primo coma diabetico, che mette tutti in allarme. Bettino e Claudio si stanno rilassando nella tiepida piscina di casa di Gabriella Curiel, la nipote del famoso stilista, ma d’improvviso Craxi galleggia svenuto a testa in giù e ci vogliono tre persone per tirarlo fuori dall’acqua e rianimarlo, quando tutto sembra perduto. Il secondo colpo, molto più grave, lo coglie la notte di Capodanno del 1990. Stavolta sembra finito: è un infarto. E, sempre per via del diabete, devono amputargli anche un dito del piede. Eppure si riprende. Arrivano le prime avvisaglie della tempesta. A una direzione dell’autunno ’91, il toscano Lagorio avverte che ha sentito dire di una grossa inchiesta giudiziaria che sta per abbattersi sul partito. «Dove? A Viareggio?», lo stuzzica Craxi. «No, a Milano», replica l’ex ministro della Difesa. «Ma va là!». Quando tutto accade, però, si sente perduto e non sa a cosa aggrapparsi. Muore Balzamo, il segretario amministrativo, e Craxi si illude: «Il buon Dio ci ha protetto, adesso che Balzamo è morto siamo a posto». Poi si scopre che prima di morire lo stesso Balzamo s’era arreso a Di Pietro, che firma i primi, fatali, avvisi di garanzia. Da allora in poi, fino all’esilio da cui manderà un passaporto falso a Martelli, scongiurandolo di fuggire in Messico - e all’aggravarsi della malattia, con Mitterrand che si rifiuta di aiutarlo, è un precipizio. Si poteva trovare la via di un salvataggio politico?, si chiedono ancora oggi i craxiani. Sì, un tentativo andava fatto. Craxi poteva salvarsi da solo, tornando a elezioni anticipate nel ’91. Ma inaspettatamente decise di accontentare D’Alema e Veltroni, che nell’89 erano andati a chiedergli di evitarle, nel famoso camper del congresso dell’Ansaldo a Milano. E poteva essere salvato da Cossiga, che gli aveva promesso di riportarlo a Palazzo Chigi nel ’92. Invece, con uno dei suoi colpi di testa, il Picconatore si dimise in anticipo, lasciandolo nei guai.