Paolo Baroni, La Stampa 11/1/2013, 11 gennaio 2013
Con la disoccupazione che ogni mese fa segnare nuovi drammatici record, lo scorso novembre secondo Eurostat abbiamo toccato quota 18,8 milioni di senza lavoro, 2 in più di un anno prima, per l’Europa è arrivato il momento di fare autocritica
Con la disoccupazione che ogni mese fa segnare nuovi drammatici record, lo scorso novembre secondo Eurostat abbiamo toccato quota 18,8 milioni di senza lavoro, 2 in più di un anno prima, per l’Europa è arrivato il momento di fare autocritica. Il presidente dell’Eurogruppo, il lussemburghese Jean Claude Juncker, nella sua ultima audizione all’europarlamento, arriva ad affermare che i 27 fino ad oggi hanno sottovalutato il problema. E dopo la cura da cavallo imposta ai Paesi a rischio crac è arrivato il momento di riscoprire «la dimensione sociale» dell’Europa. Come? Introducendo in tutti i Paesi dell’Eurozona misure come il salario minimo. Juncker, che a breve lascerà dopo otto anni il suo prestigioso incarico, e quindi ora è certamente più libero di parlare, ieri si è voluto concedere un’ultima zampata, arrivando - lui che è conservatore - addirittura a citare Marx ed il rischio di perdere credibilità e approvazione della classe operaia. Così ha sparso a piene mani dubbi sulle politiche seguite negli ultimi anni dalla Ue, puntando il dito soprattutto sull’assenza di una visione sociale dell’azione europea «che non si può limitare alla semplice austerità punitiva» adottata in questi ultimi tempi. Da buon lussemburghese, da «nordico» si potrebbe dire, si preoccupa più di chi un lavoro ce l’ha anziché di chi l’ha perso e quindi parla di «salario minimo». Si preoccupa insomma che le imprese non sfruttino la situazione di crisi generalizzata, la gran fame di lavoro che c’è, per inseguire impossibili modelli produttivi «cinesi» e imporre salari da fame ai propri dipendenti o ai giovani che assumono. In realtà il salario minimo esiste già in almeno 20 dei 27 Paesi dell’Unione, (ma non in Italia) e quindi il problema non può essere risolto solamente così: negli ultimi due anni i ceti più deboli sono stati colpiti molto duramente dalla crisi e solamente l’adozione di un «complesso di diritti sociali minimi» a livello di Eurozona potrà alleviare la loro condizione sostiene Juncker. In Italia dove non solo non c’è il salario minimo ma non c’è, in questa fase, nemmeno tanto lavoro le frasi del premier lussemburghese, complice la campagna elettorale, vengono subito tradotte in un altro modo: il primo a rilanciare la questione è Nichi Vendola, che parla di «reddito minimo». Che però è altra cosa rispetto al «salario» minimo: è un sussidio al reddito, non uno stipendio. Quindi polemizza con i «moderati nostrani» dimenticandosi però che, ad esempio, nell’agenda Monti è esplicitamente previsto «un reddito di sostentamento minimo» inteso proprio come «rete di sicurezza contro le nuove povertà sorte a causa di crisi e recessione». Poi arrivano Anna Finocchiaro, Sergio Cofferati e Francesco Boccia. E ancora Cesare Damiano e Carlo Dell’Aringa. Non sorprende, come fosse la replica del solito film già visto tante volte, che in casa Pd le letture siano differenti, con l’ex ministro del Lavoro che sostiene che il salario minimo «dovrebbe rientrare tra le priorità di un governo a guida progressista», e il giuslavorista neocandidato dei democratici che invece sostiene che in Paesi dove la contrattazione collettiva è più forte, come in Germania e Italia, questa non sarebbe la soluzione più adatta. Meglio usare la leva fiscale, strumento più semplice e più agile, e potenziare la rete di protezione sociale, per alleviare la situazione delle categorie più colpite dalle politiche del rigore. Ovviamente resta il problema di quanti, e sono tanti, dai contratti nazionali non sono affatto protetti, i 4-5 milioni di lavoratori precari che la crisi ha reso sempre più precari. Anche in questo caso il mulino a vento delle dichiarazioni mette in ombra i pochi strumenti che abbiamo a disposizione: la tanto bistrattata riforma Fornero ha infatti introdotto per i co.co.pro il principio della «giusta retribuzione», un «salario base» calcolato come media tra le tariffe del lavoro autonomo e i salari dei contratti collettivi del settore in cui si viene impiegati. Non è la soluzione di tutti i problemi, ma il primo passo l’abbiamo già fatto. "Twitter @paoloxbaroni"