Grazia Longo, La Stampa 11/1/2013, 11 gennaio 2013
No, Erika non si è trasferita in Madagascar, in Africa, per prodigarsi in opere di volontariato. E no, Erika non lavora come insegnante
No, Erika non si è trasferita in Madagascar, in Africa, per prodigarsi in opere di volontariato. E no, Erika non lavora come insegnante. I sogni coltivati nella comunità Exodus, fondata dell’infanticabile Don Mazzi, sulle colline a ridosso del lago di Garda, restano ancora sulla carta. Per ora Erika De Nardo, 29 anni, 11 dei quali vissuti in carcere per l’omicidio della madre e del fratello dodicenne, insieme al fidanzato dei suoi 17 anni Omar Favaro, ha deciso di rimanere proprio qui nel Bresciano. Nei luoghi dove l’amore per i cavalli maturato in comunità è cresciuto al punto tale da farle frequentare una selleria dove di tanto in tanto aiuta il titolare. Non si tratta di un vero lavoro, tutt’altro. E il motivo di questa occupazione altalenante non è da ricercarsi nelle maglie larghe di un interesse che non ti coinvolge come vorresti. E neppure nella mancanza di sostegno del titolare del negozio, che anzi la protegge e la difende. La causa si annida sempre là, in quella follia delle 97 coltellate sferrate in una sera di cocaina e musica a palla, il 21 febbraio 2001, nella villetta di Novi Ligure così bella da sembrare la casa del Mulino Bianco e che invece si rivelò come la casa degli orrori. Il tempo sembra non essere trascorso. Il perdono da parte del padre, la reclusione in carcere non sono bastati ad assolvere e scardinare la prigione del dolore e, per alcuni, del pregiudizio. Lo ammette la stessa Erika, che alla selleria ci viene anche solo per scambiare due chiacchiere con gli amici prima di un’aperitivo serale. Come l’altro ieri, in un pomeriggio graziato dalla nebbia ma non dal freddo. Mai pungente e acerbo quanto la sua disillusione però. «Basta non ne posso più - sbotta, con un marcato accento bresciano -. Io non sono più quella ragazzina, sono cambiata. Eppure non posso lavorare, non posso guadagnarmi da vivere come gli altri. E sa perché? Perché alla fine arriva sempre qualcuno che mi riconosce e mi dà il tormento». Bella, alta, dimagrita rispetto agli anni del carcere modello di Verziano a Brescia, dov’è arrivata dal Beccaria di Milano nel 2005 - ha un trucco leggero, i lunghi capelli scuri raccolti a coda di cavallo, un giubbotto imbottito corto, i jeans dentro gli stivali scamosciati. Una giovane donna come tante. Fuma una sigaretta dietro l’altra, smanetta spesso sullo smartphone, naviga in Internet sul computer del negozio. Ma Erika non è una donna come le altre. Non ancora almeno. Non per tutti almeno. «Don, ma se io non ho il coraggio di uccidere neppure una formica, come ho potuto fare quello che ho fatto» ha chiesto disperata a Don Mazzi, sua preziosa guida spirituale durante il periodo della comunità e suo importante punto di riferimento anche adesso. Il prete veronese l’ha tutelata e la tutela contro tutte le speculazioni che una storia come quella di Erika può suscitare. Grazie al sostegno terapeutico di Exodus prima, e dei servizi sociali comunali poi, Erika De Nardo oggi è più forte e autonoma. Vive da sola, in una piccola villetta a schiera, con un piccolissimo patio che le consente di pranzare fuori d’estate e curare una pianta di gelsomino che si arrampica lungo il muro. Ama cucinare per gli amici e continua ad occuparsi di giardinaggio, altra attività come quella legata ai cavalli, che ha sperimentato in comunità. Vuole essere dimenticata ma non si nasconde. Sul campanello il suo cognome è scritto bene in vista e i vicini di casa hanno bene in mente chi lei sia. Discreta, riservata, Erika è gentile con i vicini ma chiusa nel microcosmo dei suoi amici. L’ostilità non abita tra queste case. Prevalgono il rispetto e una buona dose di indifferenza. «All’epoca del delitto era una ragazzina - commenta un vicino -, ha pagato per quel che fatto, si faccia pure la sua vita. Qui ognuno si fa i fatti propri». «Non mi curo di lei - aggiunge una ragazza -. Pensavo rimanesse in carcere più tempo, ma non voglio pensare a chi è o a chi era. Per me è un’inquilina come tante». In questa casa, la sua casa, ogni tanto Erika riceve la visita del padre - Francesco De Nardo, stimato manager della Pernigotti - e della sua compagna, Francesca. L’affetto del padre continua ad essere una risorsa importante, essenziale. Il sorriso di Susy Cassini si è spento a 42 anni, a 12 quello del figlio Gianluca. Sulle loro tombe, a Novi Ligure, non mancano mai i fiori freschi. Qui invece c’è Erika che vive a poco più di 200 chilometri da Novi. Erika che guida la sua utilitaria bianca. Erika che in carcere si è laureata in filosofia e ora lavora occasionalmente come commessa. Erika che vive sola ma che ha un disperato bisogno di amore e di normalità. Erika che per molti è ancora quella di «Erika e Omar». Per lei Omar non esiste più. Stupita e irritata dalle sue comparsate in tv insieme alla nuova fidanzata, gli ha scritto invitandolo a smetterla di farsi pubblicità speculando «sul dolore della mia famiglia». Quando Erika era in prigione, le altre detenute la chiamavano «principessa», la pm che si occupò dell’omicidio si definì «invecchiata» per il contatto con l’oscurità del male. E oggi Erika guarda al futuro, al mondo del lavoro, nel tentativo di far prevalere la luce sulle ombre della sua giovane vita.